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UN PANTANO CHIAMATO TUNISIA

Tunisia flag waving in Tunis with government buildings in the background

Sabato 17 dicembre si è tenuto un referendum in Tunisia per eleggere una nuova Assemblea: un fiasco clamoroso accertato dal fatto che l’affluenza sia stata solo del 9% circa. Sembra che questo nuovo appuntamento alle urne sia stato boicottato dalla maggior parte dei partiti politici che denunciano l’operato del presidente.
Le elezioni si sono tenute successivamente ad una modifica molto “discutibile” dato che la nuova normativa prevede che i candidati possano prsentarsi alle elezioni parlamentari unicamente come singoli individui e non come facenti parte di un partito politico. Questa modifica influisce negativamente anche sul ruolo politico delle donne.
La data scelta è sicuramente carica di un simbolismo ormai storico: il 17 dicembre 2011 ricorre l’anniversario della morte di Mohamed Bouazizi, l’ambulante che si diede fuoco a causa delle vessazioni economiche della polizia locale. Fu proprio questo gesto emblematico ad infiammare numerose nazioni e a segnare un innegabile spartiacque politico.


Un anno fa circa, Kais Saied ha destituito il governo e sospeso alcune parti della Costituzione tanto difficilmente promulgata nel 2014, a seguito delle cosiddette “Primavere Arabe”.
Per avere una più chiara misura delle cifre numeriche di quest’oggi bisogna tenere conto che il parlamento “congelato” era stato supportato da un’affluenza di circa il 40%. Nonostante ciò, nel 2021, la “compromissione” della democrazia fu relativamente accettata in quanto l’operato di Ennahda, principale partito di opposizione a forte matrice confessionale, era stato valutato come lacunoso (nel migliore dei casi) o volutamente caratterizzato dalla corruzione (nella peggiore delle ipotesi). Nejib Chebbi, leader del Fronte di Salvezza Nazionale (una coalizione di partiti politici diversi), ha pubblicamente espresso il convincimento che il referendum sia stato un fiasco. Noureddine Taboubi, segretario dell’UGTT (sindacato dei lavoratori in aperto contrasto con le politiche presidenziali) aveva espresso parole che esortavano il popolo a non presentarsi alle urne.
Il presidente Saied, dopo aver “liquidato” il premier e sospeso l’attività parlamento dal luglio del 2021, ha fatto sì che fosse approvato un testo costituzionale che gli garantisse un governo uni-personale: il capo di Stato ha acquisito il totale controllo esecutivo ed ha assunto il comando supremo dell’esercito. Saied ha sempre sostenuto che questa fosse una mossa indispensabile per condurre il paese verso una rinascita economica e sbloccare la paralisi politica che si era generata.


A complicare il quadro tunisino è la situazione economica. Per il 19 dicembre era infatti prevista una riunione del Comitato esecutivo del Fondo monetario internazionale (FMI), ma è stata rimandata perché si sarebbe dovuto dare l’approvazione finale per un piano di aiuti alla Tunisia del valore di circa 2 miliardi di dollari. A tale iniziativa si era giunti nella metà del mese di ottobre ma il nuovo disegno di legge finanziaria promulgato dal presidente Saied nei primi giorni di dicembre non avrebbe reso possibile rispettare gli impegni presi per ottenere il finanziamento.
Si registrano dei miglioramenti sul piano di sicurezza nazionale e difesa.


La Tunisia è ancora una democrazia, ma è importante volgere lo sguardo su un possibile futuro: il popolo è pervaso dal malcontento, la povertà è evidente e tutti i partiti politici vengono accusati di “mediocrità” e “miopia”. Non è certo da escludersi che un tale mix di fattori porti ad un’implosione: molte sono le influenze di potenze estere che potrebbero godere di ottimi “risultati” se la Tunisia si trasformasse in un regime autoritario ad esse “amiche”. Non è un’ipotesi “fantasiosa”, ma basta volgere lo sguardo all’influenza russa in Siria e all’operato cinese che, di fatto, contribuisce alla destabilizzazione di Sudan ed Etiopia.
Sarebbe sconcertante se l’Italia non intervenisse: la Tunisia ha un primario ruolo geopolitico e non è possibile ipotizzare che siano sempre e solo i Paesi del Golfo ad adoperarsi per esacerbare possibili fronti di crisi. Non serve che qualcuno tenti di “esportare la democrazia”, ma è necessario creare solide partnership economiche vantaggiose bilateralmente così che nazioni meno “limpide” non possano trovare spazio di manovra. Tutto ciò è fondamentale anche in chiave securitaria per la nostra nazione.

Arianne Ghersi

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