SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO
Voglio parlare di politica in questo scritto. Ma non entrando nei tecnicismi delle rispettive competenze, bensì avendo un approccio umanistico, vale a dire avere quell’attitudine che permette di valutare l’insieme generale delle cose con una visione a trecentosessanta gradi. Gli esempi da cui partire sono molteplici. Ma voglio iniziare dal dibattito televisivo avvenuto poche settimane fa tra il noto imprenditore del marchio Diesel e il Ministro Patuanelli. Questo scambio ha colpito molto, forse anche in modo puerile dato che ormai nulla più dovrebbe stupire, soprattutto in politica.
Il tema di cui si è discusso è sempre il medesimo: l’economia ai tempi del Coronavirus. Quali persone migliori di un imprenditore di fama mondiale e il Ministro dell’economia in persona della Repubblica italiana potevano parlarne? Ovviamente non ci si poteva aspettare un dibattito di massimi sistemi di Filosofia economica per quanto concerne teorie liberiste, autarchiche, corporative, socialiste, Smithiane, keynesiane, marxiste e chi ne ha più ne metta. E invece l’ideatore della nota marca di jeans, con la sua franchezza lapidaria ha asfaltato a tutto gas – pardon, a tutto diesel- il malcapitato Ministro. Tra i due una differenza abissale di approccio, argomentazione e di attitudine. Il bassanese di adozione ha costruito un impero economico di caratura mondiale: di certo non è il classico imprenditore veneto, ma neanche un imprenditore 2.0. Egli è di una categoria a parte nel campo dell’imprenditoria. Reazionario e progressista in egual misura sapeva di cosa stesse parlando, prevedendo le conseguenze disastrose che si stanno verificando per la politica adottata da parte di questo Governo. Egli vive la realtà e sa bene come e perché attaccare l’intera classe politica come parte integrante di un vero “set cinematografico”, come lui stesso ha definito. Così, a mente calda, mai un noto imprenditore aveva osato di offendere e ridicolizzare un Ministro della Repubblica che a tratti balbettava e improvvisava, argomentando le sue tesi – se tesi si possono chiamare – con i classici giri di parole che altro non sono che concetti preconfezionati. E sono sempre le stesse identiche parole che si sentono dire, in quanto questa nuova classe politica altro non è che la perfetta espressione di un vero set cinematografico, dove ruoli e copioni sono sempre i medesimi pur cambiando gli attori. Un nastro che si avvolge e riavvolge.
Perché è risaputo che la politica è composta da persone incompetenti, presuntuose e inette senza un minimo di forma mentis, catapultati nelle camere dei bottoni per mere ragioni partitiche. Da che mondo e mondo abbiamo da sempre assistito a personaggi squallidi che hanno gestito la cosa pubblica. Nel corso della Storia ci sono stati molti governanti rappresentanti il cosiddetto “mal governo”, Imperatori, Re, Duchi, Marchesi per poi arrivare ai Presidenti e Primi ministri nell’era della partitocrazia, specialmente dal XIX secolo ad oggi.
Prima dell’affermarsi dei partiti vi erano le famiglie, soprattutto aristocratiche, che concorrevano alla politica. Ora vi sono i partiti che hanno la stessa finalità delle vecchie famiglie ma sicuramente con un modus operandi diverso. Innanzitutto bisogna contestualizzare le epoche: è chiaro che le famiglie che si interessavano della politica avevano una impostazione culturale diversa da quella che oggi hanno le persone –dalla mentalità borghese – che compongono i partiti, anche per ragioni legate alla contingenza storico – culturale. Perché il partito invece di essere una componente per la politica è diventato, con le sue strutture cristallizzate, l’assoluto, il fine. Ciò che non è cambiato, specialmente nella cultura italiana dall’unità ad oggi con la nascita dello Stato centralizzato, è il familismo. Pare un controsenso, ma nell’era dell’individualismo sfrenato il familismo è ancora insito nella nostra società, proprio grazie al sistema dei partiti. Se una volta gli amministratori pubblici (e questo a dire il vero accadeva fino a pochi anni fa) avevano una forma mentis legata alla politica nel senso più nobile del termine, oggi questi non vengono formati secondo le materie umanistiche e giuridiche, bensì sulla tecnica della comunicazione. Non importa più sapere cosa sia la Costituzione italiana e da quanti articoli essa è formata, non importa sapere quando e perché è nata; non importa sapere la differenza tra Decreto Legge e Decreto Legislativo. Non importa sapere l’anno di unificazione nazionale e le forme di governo che si sono susseguite sino ad oggi. Non importa niente di tutto ciò per le odierne scuole di partito (se scuole possiamo chiamarle), perché l’unica cosa da imparare è il saper porsi e il saper parlare secondo i diktat del conformismo sub culturale che attinge e modella la società contemporanea. Perché se è in atto una decadenza morale (morale che è legata alla cultura di una Nazione) è colpa senz’altro della Politica che ha gestito la cultura non come elemento identitario, che nel caso italiano può rappresentare una diretta e intrinseca emanazione della nostra essenza, ma come mero aspetto burocratico. Ne consegue lo stato di cose attuali.
Ma innanzitutto domandiamoci cosa sia la politica, nel senso più astratto e pratico del termine.
Su questo termine molto si è teorizzato e scritto sin dall’antichità: dalla dottrina del diritto e della morale, alla teoria dello Stato, allo studio dei comportamenti intersoggettivi fino alla sua arte e alla sua scienza. Secondo l’Enciclopedia Treccani, essa viene intesa sia come arte di governo che come scienza del governo. Nel primo caso si propone di promuovere la vita della collettività attraverso l’opera di singoli dotati di senso politico. Per questo senso la politica è azione in quanto attinge a tutte le attività pratiche in ogni sua manifestazione. Nel secondo caso la politica essa non è azione ma teorizzazione del suo oggetto, vale dire intenderlo in leggi, classificarlo e ridurlo nei suoi schemi. Traducendo questa spiegazione vuol dire che la politica esige l’azione che è meramente oggettiva, vale a dire organizzare la società e lo Stato, che sono il complesso delle relazioni. Non è oggettiva quando i politici che governano applicano la loro scienza, che è dovuta al loro tipo di formazione politica. Per fare degli esempi pratici, è chiaro che un politico reazionario non si farà mai portavoce di una legislazione progressista nel senso più ideologico del termine; così come un politico progressista non sarà mai portavoce di istanze conservatrici. È evidente, nonché naturale, che l’azione è preceduta dal pensiero. La Storia ha assistito a diversi processi politici – statuali: possiamo senz’altro affermare che la politica, per dirla alla Heinrich von Treitschke, è storia applicata.
Quello che non mancava alla politica e ad i suoi protagonisti – i politici – era un certo tipo di forma mentis: se oggi giorno possiamo ancora ammirare le bellezze artistiche e architettoniche, oltre a studiare testi letterari e filosofici di sublime fattura, lo dobbiamo a politici che promossero le arti e le scienze.
Oggi avviene l’esatto contrario, e i motivi, molteplici, sono evidenti a tutti: i politici non sono frutto di una scuola politica ben strutturata, non sono il prodotto di un pensiero ben definito al quale attingere la loro azione. Non sono altro che il prodotto dei nuovi partiti di stampo clientelare e, come già detto, familistico, a cui non interessa avere teste pensanti in quanto dominano mere logiche di arrivismo per piantare la cosiddetta “bandierina” in questo o quel posto: non occorre chi tu sia o che esperienza tu abbia coltivato nel corso della tua vita, l’importante è che non si abbia una testa pensante per non rompere certi equilibri che interessano a chi sta ai vertici del partito. In cambio della libertà – intesa nella sua accezione nobile e non in quella moderna di stampo liberale che sfocia in anarchia dissoluta – questo nuovo politico riceverà lo stipendio da sindaco, consigliere /o assessore regionale e, se è ancora più succube, può finire a Roma dove la segreteria di partito dirà quale bottone premere durante i lavori in Aula.
Questa terribile situazione è la conseguenza dell’attuale società, assuefatta al conformismo del politicamente corretto che è frutto dell’ideologia dominante. Con questo non si vuole assolutamente dare la colpa ad una certa parte politica che ha detenuto – e detiene – il monopolio dell’informazione e della cultura: la colpa è attribuibile anche alla parte politica opposta, in quanto si mescola facilmente – in molti casi anche con volontaria convinzione – a certi dogmi. Ciò ha prodotto la mancanza della dialettica che potesse permettere di avere politici risoluti e sicuri delle loro idee e quindi di agire, oltre a considerare il fatto del decadimento morale cui la società occidentale è investita, per cause attribuibili proprio alla politica. La dialettica, intesa come procedimento concettuale in quanto arte della conversazione, del dialogo, della discussione e perciò del distinguere, ha fatto posto ad un’altra tipo di mentalità: quello della comunicazione fine a se stessa. Oggi i politici non hanno più ideologi e filosofi: hanno esperti di comunicazione pagati abbondantemente dai loro partiti, i quali insegnano al candidato di turno cosa e come deve dire onde evitare di rompere quegli schemi prestabiliti che ogni partito non vuole ardire nell’infrangerli.
Ma al di là di questa questione, ciò che lascia basiti è il fatto che aziende di esperti comunicatori vengano assoldate dai partiti per ammaestrare la nuova generazione di politici. È una conseguenza logica quanto naturale il fatto che la stragrande maggioranza dei politici si basino su copioni già scritti e stabiliti da chi li ha messi ad occupare la famigerata poltrona. Una concezione antitetica a chi della politica ne teorizzò e praticò una nobile arte. Plutarco diceva che il politico è al servizio di Dio per il bene e la salvezza degli uomini. Per lui la politica deve essere volta al bene comune, deve nascere dall’amore per gli altri e non fondarsi su una infatuazione dettata da vanagloria o spirito di rivalità, bensì su una scelta chiara e sicura derivante dal giudizio della ragione. Chi entra in politica per caso e contro le sue stesse aspettative, valutando solo gli onori e i proventi derivanti da quella carica è come se si sia calato in un pozzo: prima o poi si sgomenta e se ne pente, mentre chi vi si accosta con giudizio e con una opportuna preparazione riesce bene nei suoi compiti che si prefissò.
Un’altra caratteristica dei nuovi comunicatori che spesso dimenticano di essere politici, e la loro proverbiale ipocrita vicinanza al popolo: questa si manifesta specialmente nelle campagne elettorali per poi svanire sempre più e ricomparire – a parole – quando fa comodo. Vi era più vicinanza e contatto tra sovrani e sudditi nei secoli passati: gli esempi sono molteplici. Ma sempre con quel distacco che possiamo definire gerarchico, non di semplice snob e arroganza: l’uomo politico non deve viepiù uniformarsi alla massa, altresì deve capire l’indole dei suoi concittadini per guadagnarsi prima che il consenso, la loro stima. Per i grandi partiti nazionali odierni i concittadini non sono altro che il marketing elettorale, e una volta ottenuto il loro risultato l’eletto quasi sparisce. Il buon senso preverrebbe che l’uomo politico una volta vinta la sua partita deve cercare di armonizzare le diverse tendenze dei cittadini guidandoli, da buon padre di famiglia, verso il bene, senza alcuna agitazione o fretta.
Ma al di là di questi aspetti, come dicevamo il comunicatore è il risultato di un copione già scritto da altri non ha una formazione politica. Altresì, nella maggior parte dei casi, ha compiuto un percorso di studi universitario che nulla ha a che vedere con le discipline umanistiche. Ovviamente ciò rientra nella crisi culturale che investe la nostra società, sintomo del “Tramonto dell’Occidente” per dirla alla Oswald Spengler. È un fatto ormai noto secondo le statistiche che le materie umanistiche quali la Storia, Filosofia, Letteratura e l’Arte sono ormai materie obsolete e superate, surclassate dalle materie tecniche. Ovviamente ben vengano le nuove formazioni perché il mondo è in continua evoluzione, ma è un ossimoro che nel paese con più cultura al mondo i laureati nelle materie umanistiche siano sempre meno. Di conseguenza gli uomini politici della nostra cultura sanno poco o nulla, non capendo di conseguenza il potenziale economico che deriverebbe dal settore turistico, settore che è retto e trainato da quello privato. Mancano da troppo tempo politici che abbiano una forma mentis umanistica con una conoscenza della Storia e con una precisa formazione di Filosofia. Conoscere la storia per un politico è fondamentale: come detto poc’anzi, essa non è altro che lo studio delle società che si sono susseguite con le loro istituzioni. Avere un pensiero filosofico proprio dà un senso alle proprie azioni, perché, come è stato suesposto, l’idea precede l’azione. Oggi non vi è più niente di tutto ciò: oggi i politici non sono più mecenati e filosofi: sono amministratori e comunicatori del tracking dei social e delle percentuali dei sondaggi. Ma con una filosofia ben definita, a cui è stata plasmata sin dai banchi di scuola pur non rendendosene conto. Ciò lo si può constatare nelle grandi feste nazionali o quando bisogna trattare tematiche delicate come la droga, la famiglia tradizionale, l’aborto e l’eutanasia: coloro che si definiscono oppositori della fazione politica di stampo progressista spesso cedono su questi temi, vuoi per ignoranza, vuoi per convinzione, vuoi per inerzia onde evitare avere ripercussioni dall’opinione pubblica: ebbene, anche questo è un certo agire che è preceduto da uno specifico pensiero filosofico.
Gianluca Pietrosante – Destra Brenta
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