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I CONFLITTI DIMENTICATI IN ETIOPIA E SOMALIA

Raccontare che ogni persona vittima di una guerra ha diritto a pari dignità e considerazione è un principio cristiano inattaccabile, ma la geopolitica segue altre logiche e ciò fa sì che certe situazioni siano maggiormente “trascurabili” rispetto ad altre. È la dura legge del “Dio Denaro”, ovvietà storicamente riconosciuta, ma la modernità dell’informazione ci dona la possibilità di prenderne atto in presa diretta senza dover consegnare l’ardua “sentenza” al revisionismo storico. Il caso lampante della logica appena descritta è la situazione del Corno d’Africa.

 

La storia recente etiope

 

Le ultime notizie diffuse riguardo all’Etiopia risalgono al novembre 2021, momento in cui i ribelli del Tigray arrivarono alle porte della capitale Adis Abeba, ma questo era sicuramente solo l’ultimo tassello ricollegabile ad un più ampio quadro di tensioni interetniche (si stima infatti che nel paese siano presenti circa 80 gruppi etnici differenti).

Abiy Ahmed Ali salendo al potere, ha subito sciolto la coalizione di governo che si era formata fra i principali gruppi etnici; l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front è un blocco politico all’interno del quale il maggior peso è da attribuire al partito tigrino (Tigray People’s Liberation Front, Tplf). La scelta del premier di voler dar vita ad un governo che superasse le logiche etniche, così fortemente caratterizzanti la società stessa, ha ovviamente scontentato i sostenitori del Tplf che possono essere numericamente categorizzati come il 6% della popolazione etiope (all’incirca 7 milioni di persone).

Il primo segnale che ha sancito la rottura è stata la scelta, a settembre 2020, da parte dei ribelli di ricorrere ad elezioni per nominare il Consiglio di Stato Tigrino; la tensione è poi esplosa in seguito all’attacco ad alcune basi militari ad opera del gruppo secessionista.

A giugno 2021 le forze tigrine sono riuscite a riprendere il controllo della città di Macallè, capitale della regione. Questo ha spinto il premier ad isolare totalmente la zona, impedendo che fossero forniti aiuti umanitari e generi di prima necessità. Questa scelta “strategica” ha ovviamente colpito negativamente la notorietà di Aby (assurdamente insignito del Nobel per la Pace nel 2019) che ha così reso impossibile all’Onu la fornitura di aiuti. Un rapporto delle Nazioni Unite menziona atrocità ad opera delle forze governative ai danni della popolazione del Tigray (torture, stupri, uccisioni arbitrarie) e sembra confermato che questi massacri siano stati supportati anche da soldati appositamente giunti dall’Eritrea.

I ribelli, consapevoli della forza che stavano assumendo grazie anche all’alleanza con l’Esercito di Liberazione Oromo (organizzazione numericamente inferiore, ma che racchiude le istanze degli Oromo, il più grande gruppo etnico del paese), hanno ripreso l’attività di guerriglia, giungendo a conquistare altre città importanti come Ahmara.

Da novembre 2021 i riflettori dei più comuni canali di informazione hanno poi interrotto ogni aggiornamento sulle vicende interne all’Etiopia: ciò è imputabile al fatto che solo ad inizio di settembre 2022 ha smesso di essere efficace il delicatissimo “cessate il fuoco” faticosamente mediato da Onu, Usa e Ue. La risoluzione pacifica della guerra civile diventa sempre più un miraggio.

Gli appelli a livello internazionale volti alla ricerca di nuovi spazi di mediazione sono caduti nel vuoto, infatti dei droni riconducibili all’esercito regolare hanno colpito la città di Mekelle e si registrano ingenti perdite di vite umane tra i civili. Il Tplf ha riconquistato altre zone dell’Amhara e ha costretto alla fuga un numero imprecisato di residenti. Come spesso accade, il riacutizzarsi delle tensioni non è conseguente ad un’assunzione di responsabilità dato che entrambe le parti, stato e dissidenti, accusano il rivale di aver attaccato e di aver agito quindi al solo scopo di difendersi. Il governo centrale allude, inoltre, a connivenze provenienti dall’estero dato che il 24 agosto 2022 è stato intercettato un rifornimento di armi a sostegno della causa tigrina proveniente dal Sudan.

In questo caotico scenario emergono dirompenti le denunce del Programma alimentare mondiale della Nazioni Unite (PAM) secondo cui le autorità tigrine avrebbero rubato 570 mila litri di carburante dalle scorte nazionali e ciò rischia di mettere in crisi la distribuzione degli aiuti umanitari. Secondo l’Onu nel Tigray ci sono gravi carenze di farmaci, prodotti alimentari, risorse energetiche e ciò si somma alla peggiore crisi idrica degli ultimi decenni.

La Banca Mondiale, nel tentativo di “limitare i danni”, ha concesso un prestito speciale al governo che ammonterebbe a circa 300 milioni di dollari; l’iniziativa è stata molto criticata perché alcuni osservatori vedrebbero una diretta connessione tra l’aiuto economico e la decisione del primo ministro di interrompere i colloqui di pace per riorganizzare una più sostanziosa campagna militare. Se così fosse diventerebbe vano anche il segnale distensivo di gennaio 2022 che ha portato il governo alla liberazione di alcuni esponenti dell’opposizione nel tentativo della costruzione di un nuovo dialogo. A complicare l’intervento di possibili mediatori è l’accusa posta dal fronte tigrino secondo cui l’Unione Africana sarebbe a favore del governo centrale che, a loro avviso, si è macchiato di atrocità ai danni del proprio popolo.

La crisi in Etiopia è di grande importanza per tutte le agende mondiali perché rischia di trasformarsi in una feroce guerra come quella del Rwanda che, indubbiamente, ha avuto risvolti etnici e regionali. Inoltre la visibilità del primo ministro ha fatto sì che il paese attraesse numerosi investimenti esteri che, in caso di destabilizzazione interna, andrebbero persi e condurrebbero a conseguenze disastrose aziende in tutto il mondo.

 

L’Etiopia di oggi

 

La guerra lungamente descritta nel Tigray ha, almeno sulla carta, una conclusione (3 novembre 2022) dato che il governo etiope e i leader tigrini hanno firmato un accordo di pace grazie alla mediazione dell’Unione Africana. Come soventemente avviene ciò non vuol dire che le tensioni siano un lontano ricordo, ma spinge a guardare il futuro con cauto ottimismo.

 

Venerdì 14 e sabato 15 aprile l’Etiopia è stata la meta dell’ultimo viaggio di stato di Giorgia Meloni che, in ottemperanza all’intenzione di dare concreta attuazione ad una visione strategica della geopolitica, ha fatto visita al paese per stringere nuovi accordi che possano effettivamente stimolare la crescita locale. Ovviamente non è potuta mancare una parentesi dedicata alla spinosa questione migratoria, ma l’instaurarsi di nuovi e solidi rapporti reciproci, come commentato da Meloni stessa, darà sicuramente nuovo slancio alla lotta all’immigrazione clandestina che vede vittima delle organizzazioni di trafficanti anche un grande numero di cittadini etiopi.

 

Il ruolo della Somalia nella guerra contro Al-Shabaab

 

L’excursus storico delle vicende che vedono protagonista l’Etiopia è necessario in quanto è uno dei paesi che, insieme alla Somalia, all’Eritrea e a Gibuti, compongono ciò che viene definito “Corno d’Africa”. La sanguinosa guerra fratricida del Tigray non è l’unica fonte di preoccupazione in tale zona geografica e ciò è dimostrato dalle recenti dichiarazioni del presidente somalo Hassan Sheikh: ha fatto menzione ad un’offensiva che porterà alla sconfitta il gruppo jihadista Al-Shabaab (la cui diffusione nei paesi limitrofi è ormai una triste realtà).

Hasan Sheikh ha dichiarato nel corso di un’intervista al Financial Times: “Ci sono due cose per sconfiggere al-Shabaab: una è militarmente, un’altra è ideologica” e “La guerra ideologica continuerà per qualche tempo ma, in quella militare, credo che li sconfiggeremo”. La principale causa che potrebbe portare al successo il governo centrale è il malcontento della popolazione verso l’operato del gruppo jihadista: si registrano casi di estorsione ai danni di civili e il tentativo di reclutare coattivamente nuove leve per la causa terroristica. Una mossa politicamente scaltra, ma efficace, è stata quella di inserire all’interno del gabinetto del Presidente una personalità influente di Al-Shabaab: Mukhtar Robow Mansur, dopo essere stato portavoce, ha ricoperto il ruolo di Vicepresidente di Al-Shabaab; nel 2022 è stato nominato Ministro degli Affari Religiosi della Somalia per volere del Presidente Hassan Sheikh.

Il governo centrale, consapevole delle difficoltà riscontrabili nella regione a sud-ovest del paese, ha inoltre stretto alleanze con alcune milizie locali così da poter aver supporto nelle aree identificabili come “roccaforti” del gruppo jihadista.

 

La Somalia può essere definita come un “laboratorio inedito” per la lotta ai gruppi terroristici e un successo segnerebbe indubbiamente un casus belli fondamentale dato che la mancanza di solide istituzioni statali sta sempre più conducendo il Sahel nelle mani di Al-Qaeda o di affiliati locali.

Questo dimostra come la “noncuranza” nell’osservazione di tutte le realtà mondiali porta alla sottovalutazione dei fenomeni stessi e, forse, ad una sorte di “mite” rassegnazione, quasi non fosse possibile contrastare il fenomeno jihadista. È giusto ammettere con una certa onestà intellettuale che la Somalia non ha “molto da perdere” come si userebbe dire nel modo di esprimersi colloquiale, ma non tener presente e non sostenere questo percorso farebbe trapelare un messaggio terrificante in tutti i territori “a rischio”: non si può lasciar credere che infiltrazioni terroristiche siano una calamità insanabile perché ciò spianerebbe la strada alla conquista di tante realtà controverse disseminate in tutto il globo e sottenderebbe alla non reversibilità del fenomeno.

Arianne Ghersi

1 Comment on I CONFLITTI DIMENTICATI IN ETIOPIA E SOMALIA

  1. corrado marvasi // 21 Aprile 2023 a 19:44 // Rispondi

    Ogni volta che leggo un articolo di Arianne Ghersi, mi si allarga l’orizzonte e comprendo com’è ristretto il panorama di noi occidentali, quando pensiamo che la storia e le sorti del mondo si decidano tra Washington e l’Europa

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