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C’ ERAVAMO TANTO ODIATI. ETIOPIA ED ERITREA UNITE NELLA GUERRA DEL TIGRAY

Non si parla certo di guerre risalenti all’antichità, ma alla storia recente: chi avrebbe mai scommesso che Eritrea ed Etiopia avrebbero “condiviso” un obiettivo? La Guerra di Badme, il conflitto che attanagliò i due stati tra il 1998 e il 2000 sembra ormai quindi un ricordo sbiadito relegato ad una pagina di storia. È importante ricordare che le tensioni nacquero per il possesso della città di Badme, gli scontri portarono alla morte di circa 19mila soldati eritrei (stime approssimative menzionano perdite simili anche per l’Etiopia) e tutto ciò spinse la popolazione ad una massiccia emigrazione che causò un pesantissimo tracollo economico eritreo.

Si può dire che la guerra si concluse nel 2000 grazie all’accordo di Algeri, nel quale fu dato mandato alle Nazioni Unite di creare una commissione indipendente atta alla reale individuazione dei confini tra i due stati. Nel 2002 si sono conclusi gli accertamenti e l’EEBC (Eritrea-Ethiopia Boundary Commission) ha determinato che la città di Badme dovesse far capo all’Eritrea. Nei fatti, però, l’accordo fu firmato nel 2018, anno in cui il governo dell’Etiopia ha effettivamente ritirato il suo esercito dalla città; si è dovuto aspettare un ventennio dal casus belli perché si ponesse effettivamente fine al conflitto.

Alla luce di quanto sommariamente descritto si staglia con chiarezza lo stupore verso questa rinnovata collaborazione che, in realtà, sembra poter essere meglio definita come una “collaborazione a progetto”.

Nei giorni scorsi le autorità indipendentistiche tigrine hanno annunciato di essere intenzionate ad accettare la tregua proposta dall’Unione africana e hanno esortato la comunità internazionale affinché costringa l’esercito eritreo a ritirarsi dal Tigray (la prima notizia verificabile a tale presenza risale al 10 ottobre) e faccia pressioni sul governo etiope perché si presenti al tavolo negoziale. Il 4 novembre ricorrerà il secondo anniversario dall’inizio degli scontri.

Il conflitto nel Tigray non è più ascrivibile ad una dinamica interna di uno stato, ma piuttosto ad una logica regionale. Associated Press, uno dei pochi media impegnati nel divulgare notizie su questa “parte di mondo”, denuncia  la violenza perpetrata a discapito degli indipendentisti e il silenzio della comunità internazionale sarebbe da ricondurre alla precisa volontà di Addis Abeba e Asmara di tener celati il più possibile i dettagli dell’offensiva. Il Tigray risulta isolato, impossibilitato a ricevere aiuti umanitari: sembra che l’Eritrea stia dando il proprio contributo grazie all’ausilio delle proprie truppe e il governo centrale etiope stia bombardando l’area con droni di fabbricazione turca e cinese.

Nonostante i tentativi profusi nel dissimulare la realtà, sono giunte notizie all’estero e Australia, Danimarca, Olanda, Germania, Gran Bretagna e Usa hanno pubblicamente condannato il riacutizzarsi degli scontri e l’operato dell’Eritrea. Quest’ultimo stato ha accusato l’Unione Europea e gli Stati Uniti di sottostimare l’operato del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (Tplf). Le tensioni con la fazione tigrina non sono certo “cosa nuova” e l’intervento eritreo non è ascrivibile ad un rinnovato senso fraterno verso l’Etiopia: Asmara rivendica da tempo come suo territorio una porzione del Tigray.

Un noto adagio cita “il nemico del mio nemico è mio amico” e, forse come non mai, la scelta di Addis Abeba sembra volgere in questa direzione; non è malizioso pensare che, in caso di vittoria degli eserciti “regolari” si potrebbe giungere ad una doppia soluzione: il Tigray cesserebbe di essere un pericolo per il governo centrale e smembrarlo/dividerlo tra due stati negherebbe di fatto la possibilità ai ribelli di poter successivamente riabbracciare le armi per “caldeggiare” la proprie istanze. L’Unione Africana è chiamata a svolgere un enorme lavoro diplomatico per cercare di giungere a colloqui di “pace” (accordo/tregua sono forse parole più adatte al caso) che si terranno con tutta probabilità in Sud Africa. Il “tempo stringe” perché una tale situazione di insicurezza gioca notevolmente a favore delle cellule jihadiste che, con basi forti in Somalia (ad esempio Al-Shabaab, affiliata ad Al Qaeda dal 2012), puntano sicuramente ad espandere il proprio “prestigio”.

Arianne Ghersi

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