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GUERRA E DINTORNI: UN APPROFONDIMENTO E ALCUNE PROPOSTE

UCRAINA, VITTIMA E POSTA IN PALIO DELLO SCONTRO TRA POTENZE

Relazione di Gianni Alemanno al convegno FERMARE LA GUERRA – Roma 27 maggio 2022

L’Ucraina, già dal nome terra di confine (“u” presso; “kraj” confine), ha nei secoli rappresentato l’epicentro e la posta in palio nello scontro tra le potenze dell’Europa orientale. Ad eccezione della Russia, gli attori tradizionali che per secoli si sono contesi l’egemonia su questo territorio (il mondo germanico nella duplice veste tedesca e asburgica, quello polacco e quello turco) sono stati sostituiti come potenza di riferimento dal mondo anglosassone, che oggi riveste nei confronti di Mosca il ruolo di antagonista più agguerrito. Come lo spazio polacco, quello ucraino è stato più volte smembrato dai potenti (e più favoriti geograficamente) vicini. A differenza del primo, tuttavia, quello ucraino si è coagulato in una forma statuale solamente in tempi recenti, a partire dalla prima guerra mondiale. Ciò nonostante alcuni episodi della storia moderna, come lo Stato cosacco sulle rive del Dnepr del XVII secolo, siano considerati dagli ucraini momenti cruciali della propria identità nazionale.

Tale premessa storica è necessaria per comprendere l’attuale posta in gioco e le tragiche ripercussioni che si stanno abbattendo sul Paese slavo. Con la dissoluzione dell’URSS, infatti, diversi Stati che facevano parte del blocco sovietico si sono definitivamente allontanati da Mosca, non di rado entrando nella sfera di influenza occidentale e assumendo una postura antirussa. L’Ucraina nel nuovo scontro Est-Ovest ha però rivestito un’importanza particolare, non solo per questioni simboliche e identitarie. Già nel 1996 lo studioso Samuel Huntington, nel celebre Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, aveva paventato la possibilità di una bipartizione dell’Ucraina tra la parte occidentale, inglobata nella sfera NATO, e quella orientale sotto l’influenza russa. Nel 2014, con l’insurrezione anti Janukovich la posizione liminale del Paese ha dato il via all’escalation attuale, culminata con l’aggressione russa e la guerra per procura foraggiata dagli occidentali. Una china pericolosissima, che vede gli ucraini vittime sacrificali dello scontro tra blocchi.

Proprio durante la crisi del 2014, uno dei più grandi strateghi americani, Henry Kissinger, aveva messo in guardia da un approccio miope alla questione ucraina, sottolineando la necessità di preservare la pace nella regione: «Se l’Ucraina vuole sopravvivere e prosperare non deve diventare l’avamposto di una parte contro l’altra, ma fare da ponte tra le due». Considerazioni simili sono state fatte di recente in un editoriale di Limes da parte di Lucio Caracciolo, che ha rimarcato gli errori strategici occidentali post Guerra Fredda: «Paghiamo il prezzo – ha scritto Caracciolo – di non aver regolato sull’onda dell’Ottantanove i rapporti con Mosca. Noi occidentali, Stati Uniti in testa, avremmo potuto e dovuto intendere allora che senza includere la Russia più debole di sempre nei nuovi equilibri continentali ci saremmo prima o poi imbattuti nel suo fantasma avvelenato, gonfio di frustrazione come ogni potenza umiliata. Il revisionismo dei vinti è l’altra faccia dell’arroganza dei vincitori».

Siamo dunque di fronte a una crisi che si poteva prevedere e affrontare per tempo. Una crisi internazionale dove l’Europa risulta essere il classico vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro, con l’Italia che rischia di essere a sua volta la parte più fragile in gioco, visti gli enormi interessi, in primis energetici, messi a repentaglio dal conflitto.

Quanto avvenuto negli ultimi mesi parte da lontano: se a Putin è ascrivibile la tragica aggressione militare cui stiamo assistendo, non si possono tuttavia ignorare gli errori compiuti dall’Occidente dagli anni Novanta ad oggi. Nel 1994, durante il summit NATO di Bruxelles, si decise di permettere per il futuro l’ingresso nell’alleanza di nuovi Stati membri. Una scelta che avrebbe portato negli anni successivi all’adesione di quasi tutti i Paesi dell’Europa orientale. L’allargamento della NATO verso Est provocò del resto, come è noto, le proteste di Putin già durante la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco del 2007, quando il presidente russo chiese provocatoriamente contro chi fosse rivolta. Altra tappa fondamentale di questo percorso è stato il summit NATO di Bucarest del 2008, dove i membri dell’alleanza si espressero a favore di una futura piena membership dell’Ucraina e la Georgia. In quello stesso anno, ad agosto scoppiava la “Guerra dei Cinque Giorni” tra Mosca e Tblisi per il controllo dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud.

In questi mesi molti opinionisti hanno attaccato la ricostruzione secondo la quale l’Ucraina fosse ormai prossima all’adesione. Ora, è vero che l’alleanza non permette formalmente l’ingresso di Paesi in guerra o che presentano contenziosi territoriali aperti con altri Stati. È però semplicistico, se non fazioso, sostenere che i timori russi fossero del tutto infondati. Già nel maggio 2002 l’allora presidente ucraino Leonid Kucma aveva paventato l’ipotesi che l’Ucraina potesse entrare a tutti gli effetti nella NATO. A ciò aveva fatto seguito, nel novembre dello stesso anno, il varo del NUAP (NATO Ukraine Action Plan) per far aderire Kiev. La richiesta di adesione era stata fatta poi nel 2008, interrotta momentaneamente dall’ascesa al potere di Janukovich. La sua cacciata nel 2014 ha però riaperto la strada per l’ingresso nell’alleanza. Non a caso appena nel febbraio del 2019 Kiev ha inserito nella Costituzione la volontà di entrare nella NATO, a riprova di un avvicinamento verso Occidente ormai irreversibile. La guerra in corso ha portato alle estreme conseguenze l’escalation in atto da anni, con il rischio concreto di deflagrazioni più ampie, uno scenario che richiede dunque la massima cautela e responsabilità da parte di tutti gli attori internazionali.

LA POLITICA AMERICANA NEI CONFRONTI DELLA RUSSIA DA TRUMP A BIDEN

Nel 2021, alla fine della presidenza Trump e all’inizio del mandato di Joe Biden, sembrava che tutti gli americani avessero ben chiaro chi fosse il loro nemico principale: era – ed è – la Cina, la potenza planetaria destinata a primeggiare in termine di PIL, di popolazione e di pericolosità politica. Se Trump teorizzava esplicitamente l’abbandono dell’Atlantico come scenario geopolitico principale – al punto da mettere in discussione la stessa NATO – per dedicarsi integralmente al Pacifico, Biden, pur attenuando i toni, sembrava intenzionato a muoversi nella stessa direzione.

È passato poco più di un anno e lo scenario sembra completamente rovesciato. È vero che gli Stati Uniti non perdono di vista quale prioritario sul medio-lungo periodo lo scenario Indo-Pacifico, ma le dimostrazioni muscolari e la pioggia di aiuti militari sono ad oggi concentrate tutte contro la Russia di Putin. Con il risultato di mettere ancora di più Mosca nelle braccia della Cina e di aumentare vertiginosamente il potere geopolitico, militare ed economico di quest’ultima.

Insomma sembra che nei discorsi ufficiali il nemico principale dell’”Occidente” sia diventata la Russia, mentre si dipinge pretestuosamente la Cina come una potenza moderatrice.

Eppure il confronto tra queste due potenze non dovrebbe lasciare dubbi sulla scala di pericolosità, ragionando non solo in un’ottica identitaria ma anche secondo una visione liberal-democratica o semplicemente pragmatica.

La Russia è un regime autoritario, anzi per essere più precisi una democrazia illiberale, mentre la Cina è a tutti gli effetti un totalitarismo organicista, non temperato ma reso ancora più crudele dal modello economico iper-liberista.

La Russia è una nazione cristiana, più protesa ad essere europea che asiatica, la Cina sta esprimendo l’anima orientale più remota e aliena all’identità dell’Occidente, senza nulla di quel retroterra spirituale che trasfigurava le antiche civiltà orientali.

La Russia è al 12° posto nella classifica dei PIL mondiali, mente la Cina è seconda, in sempre più rapido inseguimento delle economie americana ed europea. Le sanzioni economiche contro la Russia sembrano fatte apposta per rendere ancora più difficile questa gara, perché rischiano di gettare l’Europa in una pesante recessione e di offrire alla Cina buona parte del mercato energetico russo alle condizioni economiche più favorevoli per la chiusura dello sbocco commerciale europeo.  

Perché gli USA e una parte delle nazioni europee sembrano determinati ad alimentare un’escalation militare senza precedenti nei confronti di Putin?

LA VERITÀ SULLA GUERRA IN UCRAINA

La risposta a queste domande che viene data dal Presidente Biden, da alcuni governi europei (tra cui quello italiano) e da tutto il mainstream è basata su tre affermazioni: Vladimir Putin ha aggredito militarmente un paese sovrano, macchiandosi di crimini di guerra e contro l’Umanità, secondo una strategia di potenza che non si fermerà all’invasione dell’Ucraina.

La prima affermazione “Putin ha aggredito militarmente un paese sovrano” non è contestabile e indica un grave e tragico errore compiuto dal Presidente russo: nessuna motivazione geopolitica e di sicurezza può giustificare una così grave violazione della sovranità di una Nazione. Ci vorranno generazioni per tentare di rimarginare le lacerazioni di sangue e di macerie che si sono aperte con la guerra tra il popolo ucraino e quello russo e lo stesso regime di Putin uscirà fortemente indebolito da questa avventura, sempre che gli esiti del conflitto non degenerino in qualcosa di ancora più vasto e devastante.

È probabile che in questa scelta abbia giocato la convinzione che il regime di Volodymyr Zelensky e la coesione nazionale ucraina fossero molto più fragili di quello che si sono rivelati, l’dea che sarebbe bastato un attacco militare per imporre un cambio di regime di segno contrario a quello che portò alla caduta del presidente filo-russo Viktor Janukovyč. Sta di fatto che – anche grazie al sostegno che viene da Occidente – l’Ucraina si è dimostrata una Nazione capace di esercitare la propria sovranità popolare e nazionale, non una semplice marionetta in mano a potenze straniere, quindi una nazione che deve essere rispettata nei suoi confini e nelle sue scelte.

La seconda affermazione “Putin si è macchiato di crimini di guerra e contro l’Umanità” è invece molto più contestabile della precedente. Ammesso che quello che oggi viene addebitato  all’esercito russo in termini di atrocità e abusi contro i civili non risultasse enfatizzato dalla “propaganda di guerra”, nessuna prova dimostra che tali atrocità derivino da un ordine esplicito o  implicito del Presidente Russo. Definire Vladimir Putin un “criminale di guerra”, come è stato più volte fatto da Joe Biden e da Boris Johnson, significa non solo ignorare la necessità di compiere indagini serie e indipendenti prima di infliggere una simile etichetta ad un Capo di Stato, ma anche rischiare di bruciare ogni possibilità di trattativa con questo leader e il suo regime.

Altra cosa sarebbe stata quella di richiamare Putin alle sue responsabilità di Presidente di uno Stato belligerante, chiedendo spiegazioni e indagini serie e indipendenti per accertare la verità su questi crimini, nonché di intensificare la vigilanza sui reparti militari più sospettati di abusi ed eccessi. Nessuna autorità politica si è mai sognata di definire “criminali di guerra” i presidenti americani per quello che è successo in Iraq, nei Balcani o in Libia.

Infine la terza affermazione “Putin ha una strategia di potenza che non si fermerà all’invasione dell’Ucraina” – come quella ancora più estrema che il Presidente russo sia un folle suggestionato dall’idea di ricostruire l’impero zarista – si basa sull’idea manifestamente falsa che non ci sia nessuna motivazione reale dietro la scelta di attaccare Kiev. Condannare questo attacco, come anche noi stiamo facendo, non significa dire che non abbia altra motivazione se non quella di una più o meno folle politica di potenza.

In realtà – come più volte spiegato da numerosi analisti, tra cui il più conosciuto è diventato il prof. Alessandro Orsini – l’allargamento della NATO all’Ucraina rappresenta per la Russia di Putin una seria minaccia geopolitica e militare, così come lo sono state le numerose esercitazioni dell’Alleanza atlantica fatte ai suoi confini e gli attacchi occidentali in Medio Oriente e in Nord Africa non concertati con la Russia e quindi non autorizzati dall’ONU.

In più le sanzioni occidentali contro l’annessione della Crimea e la situazione nel Donbass – dove peraltro furono addebitati a miliziani ucraini “crimini di guerra” di non minore gravità di quelli attualmente contestati all’esercito russo – rappresentano dei nodi gravissimi e insopportabili per Vladimir Putin, che nessuno – né l’Ucraina di Zelensky, né le potenze occidentali – si sono mai preoccupati di risolvere in qualche modo. L’annessione della Crimea deriva da una libera decisione del parlamento di quella regione, seguita da un referendum difficilmente contestabile, mentre anche un osservatore tutt’altro che filo-russo come il Gen. Vincenzo Camporini ha proposto per il nodo Donbass la soluzione di “un referendum gestito a livello internazionale dall’OSCE”.

In sintesi l’attacco all’Ucraina può essere definito come una reazione eccessiva e inaccettabile – per i costi umani, per la lesione del principio di sovranità e per i pericoli planetari che sta generando – a una oggettiva situazione di pressione politica e militare esercitata contro la Russia da parte dell’Occidente. In particolare non c’è alcuna evidenza che il Presidente Russo voglia estendere la propria politica di potenza oltre il contenzioso attualmente in atto con l’Ucraina, minacciando altri Stati sovrani. Queste sono considerazioni fondamentali per chiunque voglia realmente e rapidamente ricostruire la pace in Europa.

LA FRATTURA TRA EUROPA E RUSSIA COME OBIETTIVO GEOPOLICO DEGLI USA

Resta da capire perché gli USA, e di conseguenza i suoi alleati più “fedeli”, hanno voluto esercitare – da più di un decennio – questa pressione crescente, senza mai cercare una via d’uscita onorevole ed equilibrata per la Russia, neppure ora che siamo giunti ad una guerra devastante.

Probabilmente le cause principali sono di due tipi: una valoriale e l’altra geopolitica.

Dal punto di vista valoriale la Russia di Putin si presenta come una dura negazione della visione della vita e del mondo con cui l’Occidente progressista si è identificato. Gli USA e ancor di più la UE si sono così immedesimati nelle versioni più estreme dell’ideologia dei diritti umani e del laicismo, da non poter tollerare un regime che sta esplicitamente attuando una “rivoluzione conservatrice” fondata su valori tradizionali. Con questi valori, benedetti dalla Chiesa ortodossa, viene legittimato un sistema plebiscitario che si contrappone esplicitamente – come modello sociale e come attore internazionale – al “pensiero unico” dell’Occidente.

Questa alternativa valoriale dà una giustificazione ideologica (più o meno strumentale) ai motivi geopolitici dell’ostilità americana, che vanno ricercati nel ruolo che la Russia è riuscita ad esercitare in Medio-oriente e che poteva esercitare in Europa. Da qualche tempo – e particolarmente in Siria – la Russia riesce ad arginare lo strapotere americano in Medio Oriente e a rappresentare un crescente polo attrattore per il mondo islamico. In Europa rappresenta un importante contrappeso capace di fare sponda ad una possibile autonomia delle nazioni del vecchio Continente: non è un caso che i rapporti tra Russia e Germania non si sono di fatto indeboliti neanche dopo le sanzioni per la Crimea e che Putin viene costantemente accusato di essere un punto di riferimento per tutti i movimenti sovranisti europei.

Insomma gli USA di Joe Biden sembrano ritenere più importante dal punto di vista geopolitico la frattura tra Europa e Russia che non quella tra Russia e Cina, mentre è molto probabile che la stessa strategia non sarebbe stata perseguita da Donald Trump se fosse stato riconfermato come Presidente degli Stati Uniti. Su questa strategia si intravede la mano del deep state americano, mentre molto più superficialmente nell’atteggiamento intransigente di Biden pesa la volontà di reagire al disastro subito in Afghanistan in vista della difficile prova delle Midterm Elections.

A ulteriore conferma che gli interessi dell’attuale governo americano non coincidano con quelli europei, c’è da rilevare il crescente malessere con cui parte dei paesi europei stanno reagendo alla determinazione bellicista di Biden. Se una buona parte dei paesi dell’Unione europea – con in testa l’Italia di Draghi – sembrano completamente allineati con le direttive di fornire armi pesanti agli ucraini e con la volontà di portare fino in fondo le sanzioni contro la Russia, la Germania, cuore economico e politico dell’Unione europea, si sta assumendo l’onere di resistere a queste tendenze fino al punto di essere periodicamente bersaglio degli attacchi polemici di Zelensky. Anche Emmanuel Macron dopo la riconferma come Presidente della Repubblica francese sembra muoversi su questa linea, ripristinando l’antico asse franco-tedesco. Ma le divisioni presenti nell’Unione europea – e in particolare la posizione filo-americana dell’Italia – non sembrano in grado di frenare la spinta dell’asse USA-UK che punta chiaramente a contrapporre l’Unione europea alla Russia, con l’effetto – probabilmente voluto – di danneggiare entrambe queste potenze.

I PERICOLI DI UNA TERZA GUERRA MONDIALE

Questa escalation non sembra trovare un limite: da un lato gli  USA alimentano l’idea che l’Ucraina possa uscire vincitrice dalla guerra se sarà adeguatamente rifornita di armi e materiali, dall’altro lato la Russia non sembra disponibile a porre termine al conflitto se non portando a casa un tangibile risultato. La guerra si prolunga nel tempo, comincia ad assomigliare a quei conflitti interminabili come l’Afghanistan, mentre si moltiplicano i rischi di incidenti che possono portare – anche al di là delle reali intenzioni degli attori in campo – ad un suo allargamento fuori dal territorio ucraino.

Contemporaneamente è ripartita, sull’onda della paura dell’espansionismo russo, la corsa all’allargamento ad Est della NATO, con la richiesta di adesione della Finlandia e della Svezia.

In più la Cina, come l’India e buona parte del mondo islamico, non hanno mai dato segnali di voler abbandonare la Russia al suo destino e questo significa che Putin non può perdere questa guerra, né tantomeno può essere processato o eliminato come Saddam Hussein o Muammar Gheddafi.

I rischi di un conflitto nucleare, o addirittura di una terza Guerra mondiale, non sono più solo ipotesi remote o di scuola. E più il conflitto in Ucraina si prolunga e si incancrenisce, più questi rischi aumentano.

Sul versante opposto a quello atlantico, un altro contenzioso inquietante si è da tempo aperto tra gli USA e la Cina sull’indipendenza di Taiwan. Dopo la dura sottomissione di Hong Kong, gli americani non possono accettare il ritorno della sovranità cinese su un’isola, che Pechino considera alla stessa stregua di come Mosca considera la Crimea. Infatti gli USA, mentre vogliono combattere per procura la guerra con la Russia, fornendo armi e non impegnandosi in prima persona, sono pronti ad intervenire direttamente nel Pacifico, come ha dimostrato la recente crisi nelle Isole Salomone. Eppure questa specie di “guerra su due fronti” rischia di saldare definitivamente il blocco russo-cinese (con l’appoggio di India e parte del mondo islamico) e di rafforzare le ambizioni egemoniche e imperialiste della Cina.

LA NECESSITÀ DI FERMARE SUBITO L’ESCALATION MILITARE

Ma, anche senza giungere a queste ipotesi limite, è sufficiente pensare che più si prolunga la guerra in Ucraina più difficile sarà uscirne, per l’enorme e crescente costo di sangue e distruzioni che questa comporta.

Riaprire i canali diplomatici, mettendo a tacere la “propaganda di guerra” e frenando l’escalation militare, diventa sempre più urgente. Queste trattative non devono essere sotterranee e neppure la disponibilità a intraprenderle può rimanere episodica e condizionata dalle ormai periodiche denuncie di “crimini di guerra”. I crimini e le atrocità – veri o presunti – devono essere motivi ulteriori per cercare con determinazione prima il cessate il fuoco e poi la pace.

Proviamo ad indicare, sia pure come esercizio teorico, i punti di un possibile piano di pace da costruire con continuità e determinazione da parte di tutte le organizzazioni internazionali e degli Stati consapevoli dei pericoli drammatici legati ad una prosecuzione della guerra:

  1. Cessate il fuoco immediato sul territorio ucraino con altrettanto immediato stop dell’invio di armi e materiali bellici in Ucraina. (NB. Fino ad ora gli USA e i paesi europei si sono limitati a chiedere ai russi il cessate il fuoco, senza però garantire nel contempo il blocco della fornitura di armamenti all’Ucraina, alimentando così i sospetti del Cremlino che questo sia solo uno strumento per dare più tempo all’esercito di Kiev per prepararsi a proseguire il conflitto).
  2. Neutralità dell’Ucraina, con impegno definitivo a non aderire a nessuna alleanza militare.
  3. Pieno riconoscimento internazionale del referendum che ha sancito l’ingresso della Repubblica di Crimea nella Federazione Russa.
  4. Indizione di Referendum sotto il controllo di organizzazioni internazionali per permettere alle popolazioni della Repubblica Popolare di Doneck e della Repubblica Popolare di Lugansk di scegliere se ottenere l’indipendenza o rimanere all’interno dell’Ucraina. Trattato internazionale per il rispetto delle minoranze etniche all’interno di queste due repubbliche. Fino allo svolgimento del referendum e al pieno riconoscimento dei suoi risultati, nel territorio delle due repubbliche può essere resa operativa una forza di interposizione ONU.
  5. Impegno definitivo della Federazione Russa a non mettere ulteriormente in discussione i confini con l’Ucraina e a non interferire sulla sua vita politica interna, compresa la scelta di aderire all’UE.
  6. Partecipazione della Federazione Russa al risarcimento dei danni di guerra relativi a infrastrutture civili e patrimoni privati in Ucraina, contestuale alla sospensione delle sanzioni internazionali contro la Russia. Partecipazione dell’Ucraina al risarcimento dei danni di guerra relativi a infrastrutture civili e patrimoni privati causati in Donbass prima dell’intervento russo. Piano finanziario internazionale per la ricostruzione dell’Ucraina e delle Repubbliche di Doneck e di Lugansk.

Cosa pensano gli italiani della guerra

Lo scoppio del conflitto ha sorpreso persino molti esperti. È quindi naturale che l’opinione pubblica sia rimasta del tutto disorientata e priva degli strumenti interpretativi per metabolizzare gli eventi.

Ad ogni modo, è possibile individuare alcune linee di tendenza: a inizio marzo, ad esempio, un sondaggio SWG riportava come il 79% degli italiani reputasse l’attacco all’Ucraina inaccettabile, al contrario di un 9% che lo considerava comprensibile (il 12% degli intervistati non si esprimeva sul tema). Nella stessa occasione gli italiani favorevoli alle sanzioni raggiungevano il 56%, mentre quelli contrari il 18%. Il prolungarsi della crisi sta però producendo mutamenti significativi nel modo di pensare degli italiani: un sondaggio condotto sempre da SWG e reso pubblico il 2 maggio vede il 67% degli intervistati attribuire la responsabilità della guerra a Putin, il 19% a Biden e il 6% all’Ucraina. Ancor più divisivo il tema dell’invio di armi, con il 46% degli italiani a dirsi contrari, a fronte di un 43% favorevole. Non bisogna peraltro pensare che i contrari all’invio di armi siano su posizioni filo-putiniane: il 64% degli intervistati spera infatti che la Russia perda il conflitto in corso e soltanto il 10% si augura che Mosca prevalga nel conflitto.

Un altro sondaggio, realizzato da Alessandra Ghisleri di Euromedia Research e pubblicato il primo maggio, vede il 40,4% degli italiani spaventato dall’escalation del conflitto e il 30,8% preoccupato dallo scoppio di una vera e propria terza guerra mondiale. Ciò influenza anche la posizione degli italiani di fronte alla possibilità di un rapido ingresso dell’Ucraina nella NATO: il 48,4% è contrario a fronte di un 31,3% di favorevoli. Leggermente diversa l’ammissione di Kiev nell’Unione Europea, con l’Italia spaccata in due: il 42% si dice favorevole, il 39% contrario.

Dati che fanno riflettere su come buona parte dei nostri connazionali veda con enorme preoccupazione i drammi che si stanno consumando in Europa orientale. La strada del dialogo e della diplomazia deve essere riaperta al più presto, viste anche le preoccupazioni per l’economia nazionale. Un sondaggio di Nando Pagnoncelli del 12 aprile evidenziava già come il 48% degli italiani indicasse nei contraccolpi all’economia la conseguenza più temibile del conflitto in Ucraina, dato superiore persino al 43% di chi temeva l’estendersi della guerra.

L’ITALIA PROTAGONISTA PER LA PACE IN EUROPA

Questi ragionamenti non possono non concludersi con un approfondimento del ruolo dell’Italia in questo scenario di guerra. Il nostro Paese è senza dubbio una delle economie maggiormente colpite dal conflitto. Come è noto, le stime sulla crescita italiana sono scese al 2,4% nel 2022 e all’1,9% nel 2023 (rispetto al 4,1% e al 2,3% stimati prima della crisi in Ucraina). Ovviamente a pesare moltissimo è stata l’impennata del costo degli idrocarburi, già in atto alla fine del 2021 e salita dopo il conflitto, nonché l’ulteriore aumento dell’inflazione. A cui si aggiunge la spirale di sanzioni e contro-sanzioni. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi di Confindustria la Russia rappresenta l’1,5% dell’export italiano (rispetto al 2,7% del 2014, anno dell’annessione della Crimea alla Russia), interessando oltre 11.000 imprese, e il 3% dell’import (5,2% pre-2014).  Importiamo dunque più di quanto esportiamo ma bisogna considerare come nell’import italiano siano appunto considerate le materie prime, al netto delle quali la bilancia commerciale è positiva. L’aumento del costo delle materie prime ha ovviamente conseguenze pesantissime per il nostro Paese, a differenza dei colpi all’interscambio bilaterale, visto l’impatto molto ridotto rispetto alle nostre esportazioni totali.

Il ruolo italiano nella crisi, ad ogni modo, non può essere condotto esclusivamente a mere ragioni contabili, ma deve rappresentare una visione più ampia degli interessi nazionali. Attualmente Draghi non ha saputo portare avanti la politica estera con lungimiranza, appiattendo la nostra posizione su quella degli Stati NATO più oltranzisti.

L’Italia, invece di sostenere le posizioni francesi e tedesche di freno all’escalation militare e a nuove sanzioni, appare come una delle Nazioni più allineate al massimalismo americano. In questo modo si tradiscono clamorosamente i nostri interessi nazionali, perché la rinuncia al gas russo significa mettere in ginocchio tutto il tessuto economico italiano, tra i più esposti in Europa.

Ma si perde anche l’occasione storica di dare veramente un fondamento geopolitico all’unità politica della nazioni europee. Se l’Italia, invece di inseguire le direttive degli USA di Biden e gli atteggiamenti isterici di Bruxelles, scegliesse una linea di solidarietà vera con la Francia e la Germania contribuirebbe alla costruzione di un “nocciolo duro” politico europeo indipendente ed equilibrato.

In più l’Italia potrebbe diventare la sponda politica del messaggio di pace che viene da Papa Francesco e dalla Chiesa cattolica. Il Vaticano con sempre maggiore coraggio ha promosso una linea di pace contraria alla fornitura di nuove armi da parte dell’Occidente. E cosa c’è di più naturale e connaturato all’identità del nostro popolo che sposare questo messaggio universale e cattolico?

Non si tratta di esprimere un pacifismo assoluto e utopistico, ma di avere la chiara percezione del carattere perverso e irrisolvibile di questa guerra e della funzione di “agnello sacrificale” che il popolo ucraino sta assumendo a fronte di tensioni strategiche planetarie.

Tutto questo si scontra con il ruolo di “colonia” che l’Italia vive dalla fine del seconda Guerra mondiale e che sembra essersi aggravato nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, fino a giungere al massimo livello con un governo tecnico guidato da un banchiere da sempre vicino a determinati centri di potere americani.

Ma proprio per questo si apre una straordinaria opportunità per l’Italia di interpretare finalmente una posizione tanto nazionale quanto europea: diventare la capofila intransigente di una proposta di cessate il fuoco e di pace, in sintonia con la linea franco-tedesca e interprete politica del messaggio della Chiesa cattolica.

Su un piano molto più pragmatico non si può non concludere sottolineando gli effetti sulla nostra economia di un prolungamento della guerra in Ucraina. Effetti devastanti che con ogni probabilità potranno portare la nostra Nazione in recessione entro la fine di quest’anno, impedendo di rimarginare le ferite inferte al nostro tessuto produttivo da due anni di pandemia Covid. Inoltre non si intravede una chiara strategia economica europea né per fronteggiare la crisi di approvvigionamenti energetici e agroalimentari, né tantomeno per alimentare la crescita in un momento così difficile. Il Next Generation UE non è stato ancora radicalmente rivisto in conseguenza di questa crisi energetica, come la stessa PAC (politica agricola comune), mentre la BCE sembra determinata a chiudere definitivamente tutti i programmi finanziari di acquisto dei titoli di stato dei paesi membri.

Nella “propaganda di guerra” che avvolge in nostro Paese sembra non esserci spazio per queste preoccupazioni, né per una realistica valutazione degli effetti sul Nord-Africa di una crisi alimentare di vaste proporzioni. L’Italia in particolare, ma insieme ad essa tutta l’Europa, sono destinate ad essere travolte dal punto di vista economico e sociale dalla prosecuzione di questa guerra, mentre l’alleato americano molto probabilmente avrà effetti positivi sul piano economico e commerciale da questa crisi europea.

Nessuno vuol abbandonare il popolo ucraino al proprio destino, né rimanere indifferenti rispetto all’invasione di uno Stato sovrano (sperando che nel futuro si tenga lo stesso atteggiamento anche quando ad invadere saranno non la Russia ma le potenze occidentali), ma il Governo italiano, insieme a quello francese e tedesco, hanno il dovere di delineare un piano di pace realistico, senza delegare agli USA questo compito, nonché di esplicitare in modo ineludibile agli eurocrati di Bruxelles come al Deep State americano che oltre un certo livello le sanzioni alla Russia sono insostenibili per le nostre economie.

Il primo passo è quello di offrire con chiarezza e determinazione l’immeditato stop alle forniture militari all’Ucraina in cambio di un altrettanto immediato cessate il fuoco.

Questo è un compito italiano ed europeo, non solo per riportare la pace in Ucraina e salvare il vecchio Continente dal disastro, ma per gettare le basi di una vera sovranità europea.

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