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CATTOLICA, FEDERALE E FINALMENTE SOVRANA

Il tema dell’Autonomia regionale è molto in voga nell’odierno dibattito politico nazionale, soprattutto per quanto riguarda la Regione del Veneto. Infatti il 22 ottobre 2017 fu indetto dal Presidente Luca Zaia il referendum sull’Autonomia regionale dove i cittadini residenti in regione votarono per il 98,1 % Si. Analogo referendum si svolse in Lombardia nella stessa data, dove anche in questo caso il SI sfiorò il 100 %. Ma in cosa consiste l’Autonomia? Innanzitutto essa è prevista dalla Costituzione, in particolar modo dall’art. 116 il quale stabilisce che le Regioni con i bilanci in attivo possano chiedere maggiori competenze rispetto a quelle previste normalmente per le Regioni a statuto ordinario. Come cita il medesimo articolo “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 (…), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119”. La questione dell’organizzazione scolastica (ad esempio il personale e l’edilizia) è prerogativa del governo centrale, ma le Regioni virtuose dal
punto di vista economico possono chiederne la diretta gestione.

L’elenco delle competenze è molto lungo, ma ovviamente non rientrano nella gestione autonoma una serie di temi, come ad esempio la tutela dell’ordine pubblico, prerogativa dello Stato centrale. Attualmente le Regioni a statuto speciale sono cinque: Sardegna, Sicilia, Trentino Alto Adige (con le sue due province a sua volta autonome), il Friuli Venezia Giulia e la Valle d’Aosta. Tali autonomie vennero sancite e applicate subito dopo la Seconda Guerra Mondiale ad eccezione del Friuli Venezia Giulia che la ottenne nel 1963. Perché queste Regioni? Le ragioni sono meramente storiche e sociali – e dunque politiche – su cui non ci addentreremo nello specifico se non per ricordare che queste furono regioni di confine in cui vi era una rilevante tensione politica e in alcuni casi anche etnica (ricordiamo i Titini sul fronte orientale e la tragedia delle foibe e dell’esodo…).

Sulla questione delle isole, che tensioni di natura etnica non ve ne furono, possiamo arrivare ad una conclusione storicamente inoppugnabile: vale a dire il decisivo contributo della Mafia, soprattutto dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia e del Banditismo in Sardegna (a riguardo sono interessanti gli scritti dell’antropologo e storico Anton Blok, che spese la sua vita incentrando gli studi sulle relazioni e le analogie tra “potere centrale” e “potere periferico”). Ciò denota l’importanza del fenomeno risorgimentale che fu la radice di tutto per far sì che si crasse “uno Stato dentro lo Stato”, specialmente dopo la sconfitta del Brigantaggio. In più, lo spirito dei Padri Costituenti l’indomani della guerra si basò anche sul principio solidaristico: le Regioni a Statuto speciale erano in gravi difficoltà socio – economiche, situazione che in Veneto, pur travagliato dalla guerra, non ebbe (non è un caso se durante il Boom Economico la nostra regione fu tra le più proficue).

Dopo aver esposto questo breve excursus storico delle Regioni a statuto speciale, si può serenamente affermare che l’Autonomia richiesta dal Veneto in questo contesto storico sia soltanto per ragioni economiche – fiscali, dato lo sperpero di denaro pubblico per cause attribuibili a governi centrali deplorevoli che si sono susseguiti negli ultimi decenni. Peccato però che questa giusta causa appare ormai un mero pretesto elettorale per la Lega, dato che non è riuscita a portare a casa un solo articolo del testo sull’Autonomia quando fu al Governo, pur avendo un Ministro veneto per gli Affari Regionali (in compenso sono riusciti a portare a casa il famigerato Reddito di Cittadinanza). Questo sta a significare un dato incontrovertibile: ovvero che si è svilito un tema nobile come è quello dell’Autonomia per farne un triste oggetto di slogan propagandistico, incolpando per di più gli alleati della coalizione. Attualmente concedere una Autonomia a una regione seppur virtuosa, in quanto carro trainante dell’economia nazionale assieme a Lombardia ed Emilia Romagna, rischierebbe di creare non solo un unicum nella storia dell’unità italiana, ma anche diseguaglianze sociali e ulteriori attriti tra gli italiani, mai sopiti da oltre 150 anni. Ciò ovviamente non toglie la liceità della richiesta per la stessa da parte del Governo regionale veneto. Soprattutto se si pensa che i promotori di tale iniziativa furono prima indipendentisti “bossiani” e ora rinnovati nazionalisti convinti, dato che questo cambio ideologico repentino potrebbe dar adito a mal interpretazioni di ogni genere. In più in Veneto c’è una forte corrente indipendentista – venetista, la quali sostiene che il Veneto non sia Italia (sic!) e che il dialetto sia una vera e propria lingua (dimenticandosi che una lingua per essere riconosciuta come tale debba avere una struttura grammaticale, cosa che non vi è nel dialetto veneto: Pietro Bembo si starà rivoltando nella tomba. D’altronde cosa ci si può aspettare da gente che convoca il Maggior Consiglio in piena pandemia sul Monte Berico…?). Dunque, una regione che in assenza di gravi necessità e contingenze politiche – militati miri all’Autonomia potrebbe essere il preludio ad una successiva forma di indipendentismo che farebbe male all’Italia intesa come espressione di “patrie italiane”, per dirla come il Prof. Giovanni Turco, più che come unità in senso politico, dato che tale unione è dal suo principio è fittizia e artificiale visto e considerato per come venne concepita e attuata, oltre all’oggettivo fallimento storico di questa patria di ispirazione mazziniana.

L’unificazione italiana del Risorgimento, la cui ideologia attinge alla Rivoluzione Francese in quanto autentico proseguimento filosofico, mirò a creare lo stato nazione da cui deriveranno i nazionalismi ottocenteschi. Non vi sarà più la patria trascendente dove la comunità era legata da solidi vincoli tradizionali e identitari, ma vi sarà una nuova concezione di patria, ovvero quella massonica e liberal – borghese, con la sua divinizzazione di stampo panteista e immanentista. In parole povere è la Patria la nuova religione, cui difatti sottometterà – giurisdizionalmente e militarmente – il cattolicesimo, unico elemento fattuale di unione degli italiani (“…Non fu forse lo stendardo della Croce quello che tenne alto il nome italiano allorché nazioni barbare si avvicendarono a calpestarla!?”, dirà poi l’esiliato Francesco II…). A questa concezione ideologica della nuova Patria si aggiunge l’aspetto amministrativo e burocrate: ovvero il centralismo sfrenato. Un centralismo a dir poco irrazionale che in una penisola multiculturale come quella italiana è controproducente.

In pochissimi anni, oltre ad essere stata spazzata via una intera classe dirigente, vale a dire l’aristocrazia a discapito dell’arrivista e meschina borghesia, è venuto meno giocoforza l’assetto tradizionale delle
preesistenti istituzioni che formavano l’Italia con i suoi Stati Antichi, uniti da un unico elemento: la fede cattolica. E questa politica centralista non ha mai dato cenno a diminuire, dalla destra/sinistra storica di matrice liberale, al Fascismo (che addirittura accarezzò l’idea di eliminare i dialetti), per poi arrivare all’Italia repubblicana con i decreti suindicati. Questo per dire che i leciti desideri autonomistici affondano le radici ad una causa a dir poco drastica.

La domanda da porci è dunque: autonomia o federalismo? Come detto precedentemente, la prima opzione creerebbe un unicum nella storia dell’Italia unita. Il Veneto attualmente non ha il pericolo dei titini ad Oriente, non ha alle spalle poteri forti quanto oscuri come Lucky Luciano o gli autonomisti estremisti sudtirolesi. Non stiamo nemmeno parlando dell’Irlanda di Bobby Sands, dato che questo paragone azzardato v’è pure stato. Le ragioni dell’Autonomia sono a dir poco sacrosante, ma piuttosto che guardare al “proprio orto” per mere ragioni elettorali, bisognerebbe guardare in ottica nazionale per un’ Italia federale: solo così non si
creerebbero discrepanze e diseguaglianze.
Come disse mesi fa la leader di Fratelli d’Italia in visita a Venezia, non può sussistere uno Stato federale senza uno Stato centrale forte. Questa dichiarazione è stata strumentalizzata dagli alleati di coalizione che
ancora oggi, in campagna elettorale per le regionali in vista a settembre 2020, accusano FDI, erede del MSI, di essere storicamente centralisti. Verissimo che la storia della destra italiana – rappresentata esclusivamente da FDI – ha sempre avuto e dimostrato propulsioni centraliste. Ma è anche vero che le cose cambiano. Fratelli d’Italia infatti non solo aderì a quel referendum, ma soprattutto sostenne il programma elettorale del 4 marzo 2018, con cui il centrodestra unito si presentò alle scorse elezioni politiche, il quale in un capitolo mette nero su bianco il rafforzamento delle autonomie locali, inserite in un sistema di federalismo responsabile. Pertanto l’autonomia è un tema che Fratelli d’Italia sostiene già a livello
nazionale.
Nel mondo intero ci sono moti politici che stanno segnando sempre più la fine del mondo liberal – globalista: vi è sempre più un ritorno alle tradizioni e un forte attaccamento alla propria identità, in barba al tanto
osannato e professato “mondo senza confini”. Il progetto di una Italia Federale trova le sue origini proprio durante l’era risorgimentale nell’eminente figura rappresentata dal Conte Pellegrino Rossi. Egli fu incaricato da Pio IX (ebbene si, proprio quel capo politico e spirituale accusato di minare l’unità italiana) di intavolare trattative con gli altri stati italiani affinché vi fossero le possibilità di creare uno Stato italiano federale che poi avrebbe dichiarato guerra all’Austria per liberare il Lombardo – Veneto. Arrivato a buon punto nelle trattative il Rossi fu assassinato da terroristi mazziniani, e poi successe quello che tutti leggiamo – più o meno – nei libri di storia.

Ma cos’è il Federalismo ? L’Enciclopedia Treccani definisce tale forma statuale come una corrente politica che mira a conciliare l’unione dei singoli stati con la loro reciproca autonomia, che ha avuto una funzione
storica notevole in vari tempi e in vari paesi. Esempi lampanti sono gli Stati Uniti d’America, la Svizzera e la Germania. Rispetto a una Confederazione di Stati (come ad esempio poteva essere la Lega Santa di Pio V,
dissoltasi per ironia della sorte per colpa dei Veneti), lo Stato federale ha come caratteristica uno stato centrale sovraordinato agli stati componenti tale unione. Lo Stato Federale è una figura di diritto pubblico interno, avente la sua base nella legge e precisamente “nella legge delle leggi”, che è la Costituzione di ogni Stato. In pratica vi è una legge originaria dello Stato centrale che detta a sua volta le leggi negli Stati federati i quali possono adattarla a seconda delle loro esigenze e convenienze.
Le discrepanze dello Stato unitario e centralizzato dell’Italia repubblicana sono venute a galla durante l’emergenza sanitaria segnata dal COVID. Tanto che lo stesso Primo Ministro Giuseppe Conte in una delle sue dirette alla nazione ha ribadito espressamente di voler dare “autonomia” alle Regioni. Ovviamente questo in senso di responsabilità politica, non come giurisdizione, ma è significativa questa dichiarazione che sostanzialmente vuol dire una sola cosa: fallimento dello Stato centrale in quanto le sue direttive non possono essere applicate univocamente e nella stessa maniera in ogni zona d’Italia. Questo perché da regione a regione e da provincia a provincia vi sono esigenze diverse, special più se si tratta di affrontare
cataclismi come una pandemia globale in una Nazione dove mentalità, usi e costumi sono eterogenee.

Ritorniamo al discorso di partenza: spingiamoci oltre l’autonomia sbandierata a mò di slogan elettorale scaricando le proprie responsabilità ad altri. Che si cominci a pensare ad una Italia federale con uno Stato
centrale autorevole che dia l’impulso iniziale per ogni azione politica e legislativa. Solo così potremmo avere una Italia forte anche nel palcoscenico internazionale. Ma non solo impulso: che lo Stato centrale, con
capitale ovviamente a Roma, funga anche da guida in materia di ordine politico e di primazia spirituale.
D’altronde questo fu per millenni il ruolo di Roma. È anche vero che se guardiamo chi attualmente guida la città come istituzione cittadina e capitale spirituale della cristianità, c’è da disperarsi. Ma come dice Marcello
Veneziano, bisogna “disperare bene per sperare”, perché il mondo liberale impregnato di globalizzazione è come dicevamo sempre più agli sgoccioli. La speranza è quella di un futuro governo sovranista ma anche
attento ai particolarismi italiani, dunque alle autonomie: è ora che l’attuale centro destra si sganci da una retorica patriottarda che affonda le sua radici culturali in una pagina triste come il Risorgimento, così come debba alienarsi da manie tiepide di indipendentismo, per cominciare a scrivere un’altra Storia, lontana dagli slogan ma vicina all’identità.

Gianluca PietrosanteAssociazione Destrabrenta

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