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AFRICA: È UN OPPORTUNITÀ E NON UN PROBLEMA

Nel mondo della comunicazione, al quale i nostri occhi sono adusi e del quale i nostri pensieri sul mondo sono figli, si sovrappongono costantemente diversi piani di realtà: quelli concernenti le trasformazioni reali, i processi materiali e sociali da un lato, e quelli reiteratamente narrati dai media fino alla nausea. Il tema dell’immigrazione, agghindato di moralismo e riproposto ad libitum nel facile schema manicheo buoni-cattivi, rientra a pieno titolo tra questi: esso viene affrontato come se si trattasse di un problema statico; come se fosse, cioè, un medesimo meccanismo a ripetersi indefinitamente sempre nella stessa forma – e, anche e proprio per questo, viene sancito come inesorabile.

In realtà, essendo comunità ed individui concreti quelli che scelgono la via del Mediterraneo per fuggire dalla miseria, altrettanto tortuosi ed in divenire sono i loro percorsi. A questo proposito, sensibili trasformazioni stanno interessando una delle rotte più popolose dei flussi migratori: quella dal sud del Sahel, la fascia di territorio al di sotto del Sahara che attraversa da Ovest a Est il continente nero.

Quello che in precedenza era un tragitto più o meno costante (attraversando il deserto dall’Africa subsahariana per raggiungere la Libia, Stato dai confini instabili e non controllati, dalla quale poi partire per l’Europa attraverso il Mediterraneo) sta subendo la pericolosa intrusione di un soggetto noto come Isis, che vi esercita un’influenza sempre maggiore. Infatti, in seguito alla morte di un leader carismatico unificante come Bin Laden e all’abbandono della struttura localizzata facente riferimento ad una base che contraddistingueva Al Qaeda, i fondamentalisti e terroristi islamici hanno cominciato ad adottare un’organizzazione più capillare e territorialmente diffusiva.

Facili vittime dell’influenza musulmana estremista sono proprio gli emigranti, che sempre più spesso e in quantità sempre maggiori sospendono il proprio percorso verso la Libia nella parte meridionale del Sahel e vengono dotati di armi dai fondamentalisti, i quali intendono così formare progressivamente un esercito a propria disposizione per le operazioni militari o più generalmente terroristiche.

Le ragioni di questa così marcata influenza sono diverse. In primo luogo, i miliziani dell’Isis provvedono a fornire una formazione, ancorché militare, agli africani in fuga; in secondo luogo, gli emigranti inquadrati nell’esercito islamico ricevono somme di denaro che possono poi impiegare come rimesse, quale compensazione del proposito che si aspettavano di conseguire in Europa; infine non si può sottovalutare il peso del fascino dell’identità di gruppo fornita facilmente ad individui soli e sconfortati, dalle personalità infragilite dalla disperazione e spesso facilmente condizionabili.

Non bisogna dimenticare, inoltre, che coloro che intraprendono la via verso la Libia sono quasi sempre dei giovani: infatti, proprio in quanto più resistenti e fisicamente prestanti vengono designati dalle proprie famiglie, perché ritenuti più capaci di sopravvivere alla traversata del deserto e di lavorare per ottenere un reddito una volta giunti in Europa (ed è questo il motivo per cui sui barconi vediamo arrivare ‘giovani in carne’). Ad essere inquadrati negli eserciti islamici non sono, così, civili debilitati, ma ragazzi nel pieno della loro forza fisica.

Se da un lato, quindi, il fenomeno visibile a tutti a valle di tale processo è una sensibile riduzione delle partenze e quindi un alleggerimento provvisorio della pressione migratoria, dall’altro vi è in concomitanza e a monte una moltiplicazione della manodopera armata ed inquadrata ideologicamente, una minaccia latente e crescente ma avente fin da ora gravissime ripercussioni sociali e securitarie per lo stesso territorio africano. In termini di sicurezza, vi sono già situazioni delicatissime e preoccupanti nelle aree settentrionali di Burkina Faso, Niger e Mali, e di quest’ultimo Stato sono coinvolte anche la zona centrale ed il capoluogo urbano di Ségou.

A fronte di un simile problema, i cui pericolosi effetti sono ancora tutti da sperimentare, è evidente che la soluzione deve essere di carattere sistemico e concertata sul piano di una collaborazione internazionale che intervenga concretamente e direttamente sul suolo africano. In forma più immediata, anche l’operato di alcune ONG può essere virtuoso e strutturale, ancorché parziale. Se, da un lato, l’utilità di quelle che operano come pattuglie del Mediterraneo è pari a quella che avrebbe un cucchiaio di miele per guarire un tumore, dall’altro ve ne sono alcune, come Reach Italia, che intervengono in modo tangibile alla radice del problema.

Reach Italia ha sviluppato svariate forme di soccorso alle comunità dei Paesi in prossimità del Sahel: micro finanziamenti e supporto commerciale; sostegno dell’artigianato locale; contrasto dei processi di desertificazione e tutela delle attività agricole; rifornimento di mezzi tecnologici per potenziare il settore primario e percorsi di formazione correlati. Inoltre, la ONG concorre con i propri finanziamenti a garantire risorse di prima necessità, come le cure ai bambini, rifornimenti d’acqua potabile, pasti quotidiani e cure mediche. Essa collabora anche a sostegno di strutture ospedaliere, scuole ed istituti infermieristici per fornire alla popolazione locale un’istruzione in seguito socialmente spendibile.

Tuttavia, per quanto virtuose siano simili esperienze di aiuto sul territorio, vi sono enormi insidie che complicano drammaticamente la possibilità di un’emancipazione autonoma ed effettiva da parte del popolo africano. Da un lato, infatti, il continente si presenta come un contesto edenico per tutte quelle imprese che vogliono delocalizzare per garantirsi manodopera a bassissimo costo, senza tutele sociali ed ambientali; dall’altro è estremamente facile e ricorrente l’inserimento sul territorio africano per estrazioni minerarie che assicurano enormi indotti concentrati in pochissime mani, senza nessuna redistribuzione della ricchezza che avrebbe delle ripercussioni sociali per le comunità locali. Il Burkina Faso, ad esempio, è uno dei paesi con i giacimenti aurei più vasti del mondo, ma la sua popolazione è poverissima e si colloca alle ultime posizioni tra tutti i Paesi del globo in termini di indigenza.

Oltre alla logica predatoria delle multinazionali occidentali, anche gli ingenti investimenti cinesi non hanno e non avranno pressoché nessuna ripercussione in termini di benessere per gli africani, in quella che si profila come una vera e propria colonizzazione del terzo millennio. I miliardi impiegati da oltre un decennio dalla superpotenza sono stati spesi integralmente in vista del proprio fabbisogno: sono stati condotte opere di disboscamento al di fuori di ogni legalità per soddisfare le esigenze di legname in patria; vengono impiegati lavoratori africani per lavori estremamente usuranti per meno di un dollaro al giorno; vengono, infine, costruite città fantasma che fungeranno da ricettacolo abitativo (già circa 800.000 cinesi si sono trasferiti in Africa negli ultimi dieci anni) per far fronte alla pressione demografica in Cina, la quale raggiungerà in tempi piuttosto brevi un miliardo e mezzo di abitanti.

Nonostante questa serie di problemi gravissimi, che insidieranno la tenuta sociale di diversi paesi, vicini o distanti, coinvolti in questo processo socialmente esplosivo, i media mantengono un silenzio assoluto sulle logiche effettive dell’impoverimento dell’Africa, sull’esponenziale crescita delle disuguaglianze, sulle minacce culturali, identitarie e militari della radicalizzazione islamica e sull’inesausta adozione di politiche internazionali irresponsabilmente miopi ed insostenibili nel lungo termine. Se enorme e trasversale è il lavoro da fare indispensabilmente nei confronti del continente africano, altrettanto lo è quello della sensibilizzazione dell’opinione pubblica occidentale, intontita da un’estetica cronachistica ultra semplificata. Un lavoro urgente e ancora tutto da svolgere, contro alternative ben più comode: sfilare ai cortei e inneggiare in strada ai diritti umani, solo per poter dire un giorno, quando sarà troppo tardi, “io, almeno, ero dalla parte giusta”.

 

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