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BENE LA SICUREZZA, MA LA CERTEZZA DELLA PENA?

O la necessità di una riforma della giustizia penale

Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo strumento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità (..). Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all’estremità dé mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con buone leggi.

Questo era il monito del marchese Beccaria, ancora attuale. E per ambire a legiferare buone norme, le stesse non devono esser calibrate sulla cosiddetta onda della emotività. Quindi il legislatore dovrà camminare mantenendo l’equilibrio su un filo, evitando di cadere alla sua sinistra, ove troverebbe il c.d. horror vacui, ossia la mancanza di una norma che tuteli un evento; e, alla sua destra, normando lo stesso fatto senza esser spinto, come detto, dall’onda della sua emotività o da un moto popolare giustizialista. Su un punto, reclamato ad alta voce dal popolo e coralmente dalla società civile, non si può esser contrari: in Italia, per certi aspetti, manca la certezza della pena. E questa tangibile sensazione, questo sentimento di sconforto mina inevitabilmente la fiducia delle persone nello Stato e in alcune sue istituzioni.

Vero è che, seppur già esistano delle ipotesi di reato che tutelino un diritto, una libertà, un bene, può accadere che risultino, per certi aspetti, anacronistiche o, semplicemente, poco efficaci, alla luce del momento storico. Si pensi al procedimento penale minorile. Alcuni richiami a recenti a fatti di cronaca: in un procedimento contro minorenni a Varese, è stato contestato, per la prima volta, il delitto di tortura, in danno di un coetaneo vittima di sevizie; in un istituto superiore di Aprilia uno studente quindicenne ha lanciato tre molotov, “che ha imparato a costruire sul web” per sfogare la sua rabbia generalizzata forse contro atti di bullismo, rischiando una strage (nonché la sua imputazione); l’uccisione (omicidio) di un clochard a Palermo, da parte di un sedicenne e di un dodicenne rumeni, quest’ultimo non imputabile, per rubargli (rapina) venticinque euro; un minore legato, picchiato e lanciato da una auto, a Brindisi, sembra per una “guerra” tra baby-gang locali.

Cosa accomuna i suddetti casi con ulteriori altrettanto noti? La circostanza che molti reati, prima di “esclusiva pertinenza” di soggetti maggiorenni, oggigiorno vengano commessi  da minorenni e, comunque, con modalità e efferatezza (modus agendi) tipiche e degne di “individui navigati”. Quali sono le guarentigie o le premialità che tutelano i minori di anni diciotto? In primis, nel caso di condanna, una pena automaticamente diminuita (sempre che il soggetto avesse quattordici anni al momento della commissione del fatto: in caso contrario scatterebbe la sua non punibilità); in seconda istanza – e qui il punto dolente – la eventuale sospensione e messa alla prova dell’imputato: in caso di esito positivo di tale percorso è prevista l’estinzione del reato, cioè un colpo di spugna al fatto delittuoso compiuto (come già accaduto per soggetti minori che hanno violentato loro coetanee o ucciso, pur colposamente, un anziano spingendolo in mare; o portato al tentato suicidio una minore per atti di bullismo virtuale).

Ci si domanda se sia ancora giusto, nel contesto storico attuale, questa “protezione” nei confronti di autori di reato, seppur non maggiorenni. Ci si domanda, altresì, se non sia il caso di prevedere la punibilità abbassandone la soglia sotto gli anni quattordici. La discussione è aperta.

Si parlava, in generale, di certezza della pena. Un esempio chiarificatore. Il delitto di rapina, punito dall’articolo 628 del codice penale, prevede una reclusione che va da un minimo di cinque a un massimo di dieci anni (se aggravata, da cinque a venti anni). La valutazione sulla sanzione da irrogare viene, com’è noto, emessa da un giudice, dopo un giusto processo, in via meramente discrezionale: cioè sarà l’organo giudicante a decidere, secondo dei criteri stabiliti dalla legge (art. 133 c.p.), quale pena materialmente irrogare al reo. Di certo, salvo casi eccezionali di cui non si ha memoria, non si viene mai condannati a venti anni o ad una pena vicina ai massimi per una rapina (cosi come ai massimi per un furto non aggravato – seppur le pene siano state aumentate nel 2017). Il problema non sta in questo. Per assicurare alle patrie galere il colpevole di un delitto, non è necessario – a mio avviso – prevedere una forbice così ampia e discrezionale, basterebbe infatti elevare nei minimi le pene di alcuni delitti. Inasprire quindi – o ulteriormente (vedasi il decreto sicurezza) – i minimi edittali, ad esempio per i delitti di violenza sessuale, maltrattamento, furto e rapina. Ed ancora reintrodurre, sotto un’altra forma, il delitto di plagio (o di manipolazione mentale/psicologica); introdurre il c.d. omicidio di identità (con altra dicitura, naturalmente), alla luce dei molteplici casi di uso di acidi per deturpare il viso. Come? Semplicemente modificando, con aggravanti specifiche, l’istituto delle lesioni o quello delle circostanze aggravanti comuni. Estendere, come altro esempio, l’istituto dell’ammonimento emesso dal Questore ad altre fattispecie di reato; rivedere alcuni istituti premiali previsti dall’ordinamento penitenziario, affinché la pena definitiva sia effettivamente scontata per intero (da noi neppure l’ergastolo, il c.d. fine pena mai, è realmente una condanna a vita dietro le sbarre); modificare alcuni specifici istituti previsti dal codice di procedura penale.

Nel discorso inaugurale dell’anno accademico dell’Università di Siena, tenutosi nel novembre del 1921, l’illustre giurista Piero Calamandrei, individuava quattro “tortuose vie …che la politica segue per far sentire il suo influsso sull’amministrazione della giustizia”. Contestualmente aggiungeva che “il giurista non deve limitarsi a interpretare il diritto ma ha anche il compito di contribuire a riformare le istituzioni”.

È giusto ed è il momento che una riforma della giustizia (penale) sia da compiersi: non perché sia il popolo a richiederla, ma in quanto sono i tempi ad invocarla. Come non si può, infine, esser d’accordo su una riforma dell’istituto della legittima difesa e dell’eccesso (alla luce del brocardo vim vi repellere licet). Naturalmente tutte queste misure (prese ad esempio, nonché altre) devono esser ben ponderate ed inserite in un processo di riforma più ampio e calibrato all’attuale sistema giudiziario-processuale (al momento troppo lungo e irto di insidie: una riforma della prescrizione, senza una a più ampio respiro del sistema non è cosa saggia, a mio avviso).

Si parlava altresì di cultura della legalità. Come non comprendere che è necessario reintrodurre e potenziare la lezione di educazione civica, di educazione alla cittadinanza nelle scuole di ogni ordine e grado. Insegnare ai giovani non tanto cosa sia il bene e il male (dovrebbero già conoscere la differenza) ma quali sono le conseguenze, anche giuridiche, di azioni che loro ritengono mere bravate (peraltro l’articolo 5 del codice penale sancisce la non ignoranza della legge penale). Come non comprendere che se lasciate allo sbando persone non italiane e irregolari, queste – potenzialmente – potrebbero perpetrare dei delitti anche solo al fine di sostentamento.

È necessaria, per concludere, una rivoluzione del pensiero (anche nel campo del diritto), non allineato, non unico, ma finalizzato ad un coinvolgimento popolare che miri, in tutti i campi e con l’aiuto di tutti, secondo il loro ruolo e competenze, al benessere dei consociati e alla loro tranquillità (sicurezza) da pericoli esteri e domestici,

Alessandro Continiello, avvocato e responsabile territoriale per Milano di Nazione Futura. Autore del saggio “Sicurezza. Prevenzione e Legalità”

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