Il lavoro nobilita(va) l’uomo
In Giappone hanno una parola per dire “morire di lavoro”: karoshi.
Secondo le fonti ufficiali 9mila persone l’hanno muoiono per cause direttamente riconducibili a orari lavorativi esagerati e stress. Ma la verità è che la cifra è molto più alta. Il medico che esegue l’autopsia ha la facoltà di inserire quella parola come causa di morte. Diciamo che la propria professione è diventata un po’ come l’alcol: un po’ è bello, ma troppo ti manda al Creatore. E quella parola è ormai così di uso quotidiano che è stata esportata nei Paesi vicini, come la Cina, e ne han fatto pure un giochetto per computer dove devi cercare di uccidere il tuo alter-ego operaio sfruttandolo al massimo.
Gli orari giapponesi sono pesanti. Mai sotto alle 60 ore settimanali, di solito tra le 70 e le 90. I sindacati fanno ancora più ridere che qua, e il diritto del lavoro è meglio definibile come il diritto del datore di lavoro. Ma vi è anche una via più breve del lasciarsi morire lentamente: il suicidio.
Ovviamente c’è una parola anche per il togliersi la vita per cause lavorative, karojisatsu.
Le vere cause di tutti questi avvenimenti sono più che giuridiche, o linguistiche-sono culturali. Dobbiamo badare che anche qui da noi non si debba presto inventare un nuovo lemma per il dizionario. La attività creativa, di sublimazione delle proprie passioni nella produzione di un bene economico è stata la fondazione del nostro concetto di “lavoro”. Quello che la tradizione ci ha passato è sempre stato il concetto di lavoro per vivere, e per vivere bene (economicamente, psicologicamente, cristianamente per chi crede).
Il mondo moderno che oggi abbiamo ci vuole forse insegnare che dobbiamo lavorare per morire? Pensiamoci ogni volta che accendiamo il nostro pc la mattina. Come diceva un vecchio parroco “Il lavoro deve produrre uomini, prima che cose”.
Andrea Carbone
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