I primi 10 anni della Corte penale internazionale dell’Aja
(tratto da http://www.ildigestivo.it)
Il primo luglio la Corte Penale Internazione (CPI) ha compiuto i suoi primi dieci anni di attività. Scopo della CPI è occuparsi dei crimini più gravi che interessano la comunità internazionale, quali ad esempio genocidi, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, se e solo se gli Stati non vogliono o non possono agire per punirli.
Ex post, il ritiro degli Stati Uniti all’atto della firma del trattato istitutivo di Roma del 1998, statuto che entrerà in vigore il 1 luglio 2002, fa sorridere. La CPI contravveniva alle garanzie costituzionali americane e ne violava la sovranità rischiando di mettere sotto processo le truppe statunitensi all’estero. La soluzione fu far sottoscrivere degli accordi bilaterali con gli stati che ricevevano assistenza militare da Washington affinché rinunciassero a ricorrere alla CPI anche se firmatari del trattato.
I risultati ottenuti in questi primi dieci anni sono a dir poco imbarazzanti, considerate quelle che erano le premesse e gli alti obiettivi prefigurati alla nascita, ovvero realizzare un entità giudiziaria universale ed indipendente in grado di fare giustizia a tutte le latitudini senza guardare in faccia nessuno. Insomma, la classica montagna che partorisce un topolino. La CPI, composta da 18 giudici ed uno staff di circa 700 persone con una spesa di 1 miliardo di dollari, ha riscontrato gravissime violazioni dei diritti umani in 16 paesi, incriminando ben 28 persone e condannandone una (1) in primo grado. Su 30 mandati di arresto e comparizione solo 5 persone sono in carcere all’Aja.
Il paragone con altri tribunali internazionali ad oc che si sono occupati crimini di guerra a partire dagli anni ’90 è impietoso. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, creato nel 1993 e destinato a chiudere i battenti nel 2014, ha fatto arrestare tutti i 161 accusati, completato i gradi di giudizio per 126 di loro con 64 condanne, 13 proscioglimenti, 13 trasferimenti dei processi ai Tribunali locali e 36 accuse ritirate o procedimenti chiusi per morte dell’imputato, come avvenne per Milosevic.
Che dire poi dell’efficacia dei mandati di cattura della CPI. Il presidente del Sudan, Al-Bashir, nei cui confronti sono stati spiccati ben due mandati di cattura internazionali, il primo nel marzo 2009, il secondo nel luglio 2010, in cui lo si accusava di genocidio e crimini contro l’umanità nella regione del Darfur, è tuttora a capo del suo paese ed a piede libero.
Di più, Al-Bashir si è recato in missione ufficiale in quattro paesi africani firmatari del trattato istitutivo della CPI (Kenya, Ciad, Gibuti e Malawi), che, in base al dovere di collaborazione con la CPI, avrebbero dovuto immediatamente arrestarlo. Quali sono state le conseguenze per i paesi ospitanti inottemperanti ai mandati cattura? Nulla è accaduto dopo il deferimento al Consiglio di sicurezza dell’ONU, unica entità autorizzata ad erogare sanzioni nei confronti dei paesi aderenti alla CPI che non ottemperano agli obblighi previsti dal trattato istitutivo. Significativo il fatto che il presidente del Sudan, prima di visitare il Malawi (stato poi deferito al Consiglio di sicurezza), si sia recato in Cina, membro permanente e con diritto di veto del Consiglio di sicurezza dell’ONU e non aderente alla CPI.
La CPI non è investita di competenza universale ma, secondo il principio di complementarietà, entra in gioco solo se il paese in cui è avvenuto il presunto crimine non lo persegue. La CPI si occupa poi unicamente dei reati commessi nei paesi aderenti alla CPI e di situazioni che vengono riferite alla Corte dal Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite.
Il Consiglio di Sicurezza, in questa veste, interferisce come nessuno stato potrebbe interferire con le proprie autorità giudiziarie, costringendo la CPI ad avviare un inchiesta, e può bloccare ripetutamente un inchiesta avviata o che sta per partire. Dall’altra parte lo statuto di Roma autorizza la CPI a rivolgersi al Consiglio di sicurezza se uno stato, firmatario o meno degli accordi, non collabora nelle inchieste e non esegue i mandati di cattura. Non è detto però che l’ONU intervenga contro lo Stato renitente. Anzi finora non l’ha mai fatto, tale il peso nel Consiglio di sicurezza di tre stati membri permanenti con diritto di veto e non aderenti alla CPI (Stati Uniti, Russia e Cina).
La CPI deve convincere i governi a sostenere la sua azione ma, nel contempo, apparire terza ed indipendente, al fine di evitare di mostrarsi come strumento di quegli stessi governi, ma terza ed indipendente come si può vedere non lo è. Piuttosto la CPI sembra il tentativo di imporre un globalismo giudiziario dopo quello economico, nello stampo di un auspicato “stato di diritto globale”, che non va a favore di chi è stato leso da genocidi e crimini di guerra, ma invece fa gli interessi politici degli stati che se ne fanno promotori proprio dei paesi che si fanno promotori del funzionamento di tribunali internazionali, che rispondono ai propri interessi politici.
E per vedere se saranno ancora questi a prevalere, sarà sufficiente attendere il risultato delle elezioni in Kenya nel prossimo anno. Nel marzo 2011, la Corte Penale Internazionale ha emesso sei mandati di comparizione verso altrettanti politici del Kenya. Questi sarebbero responsabili delle violenze interetniche che vi sono state durante la campagna elettorali presidenziali del 2007, che causarono oltre 1.500 morti e 300.000 senza tetto. Tra i destinatari dei mandati, vi è uno dei probabili candidati alla presidenza del Kenya. Nel caso di sua vittoria accadrà come per l’attuale presidente del Sudan, pluri-ricercato ed a piede libero, o come per l’unico condannato dalla Corte, che perse le elezioni in Congo, fu immediatamente estradato all’Aja?
Luca Frabboni
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