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L’architettura come monito sociale

di Barbara Leva

Molte volte ci si chiede che senso abbia mantenere in vita edifici preesistenti, malandati e privati delle funzioni originarie. E dunque si procede secondo quella che è ritenuta la strada più semplice: la distruzione. Distruggendo, infatti, si pensa di creare un nuovo spazio da riempire in maniera più adeguata alle necessità del momento – e ne sa qualcosa il nostro territorio nazionale (o statale, visto che i tempi non permettono di usare il termine nazione con sicurezza scientifica).

Anche da un punto di vista più propriamente sociale e politico la distruzione è molte volte additata come unico mezzo possibile per affrontare il futuro: rottamare i dirigenti del PD, fare dimettere Berlusconi, respingere gli stranieri. Tutti atti che vogliono impedire una continuità di intenti e di attività, come se la cesura netta potesse garantire uno sviluppo positivo. La storia dell’architettura insegna che non è così. Procediamo per esempi pratici.

San Giovanni in Conca, ad esempio, situata a Milano in piazza Missori, conserva al di sotto una cisterna romana, coperta in epoca romanica da una chiesa, poi rimaneggiata e resa cappella palatina in epoca rinascimentale tramite l’annessione al palazzo dei duchi milanesi, infine dimezzata, resa tempio valdese ed ora distrutta per costruire una piazza. Gli intellettuali del Novecento si opposero alla demolizione totale, permettendo la conservazione dell’abside e della cripta, dalla quale si possono vedere i resti romani. Le opere d’arte invece furono trasferite al Museo d’Arte Antica presso il Castello Sforzesco.

Santa Maria presso San Celso, in Corso Italia, è un’ulteriore testimonianza di come una chiesa romanica sia stata dotata di aggiunte durante il Rinascimento e poi ancora in pieno Barocco.

Quando guardiamo casi come questi, ci possiamo ricordare che il suolo che noi ora calchiamo e l’aria che respiriamo (con un po’ meno biossido d’azoto) furono calcati e respirati da santi e filosofi che si studiano e non si conoscono mai bene, da duchi e re e dominatori dalle provenienze più disparate, da gran dame, cavalieri e un popolino indaffarato.
E capiamo quindi da dove veniamo, e come siamo arrivati ad essere ciò che siamo. Sapere che nella chiesa davanti alla fermata del tram che prendiamo tutti i giorni fu battezzato Sant’Agostino, che alla certa colonna vicino ai negozi del centro predicò San Carlo, che una scalinata era percorsa dal Manzoni per recarsi a messa e un certo campanile fu usato durante le Cinque Giornate non è pura curiosità erudita. E’ un mezzo per sapere come si è giunti ad ora, e interrogarsi sull’uso che noi e la nostra società facciamo non solo di quei monumenti, ma dei loro ideali.

Per secoli la volontà costruttiva, scontrandosi con qualcosa di esistente e non più attuale, non ha proceduto all’annullamento ma alla conservazione per mezzo di aggiunte, consapevole dell’importanza materica e concettuale dei monumenti del passato. Ora invece, se qualcosa non serve si demolisce e si ricrea, perdendo ogni legame con il passato in virtù del futuro, come se il futuro potesse basarsi su ciò che non c’è invece che su ciò che non ha più valore d’uso ma testimonia il lungo percorso per arrivare all’oggi. Eppure ce ne dimentichiamo sempre.

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