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Eternità

di Barbara Leva

La vecchietta era distesa in una specie di cassa da morto simile al guscio di una noce, appoggiato al pavimento. Unica fonte e sorgente di una luce sbiadita all’interno di una stanza dalle pareti traboccanti libri e oscurità. Piccolo corpo allungato inerte, nella sua essenza di legno. La carcassa di un corpo deceduto, che non può però morire perché composto di materiale naturale reso vivo ancora grazie alla trasformazione in effigie. Eppure quella piccola sagoma, fragile nella forma e nella sostanza, vedendoci si alzò; prima la testa, e poi le braccia e infine il bacino si alzarono dal giaciglio nel rivolgere a noi una voce soave e melliflua ma pure autorevole. Lei, nella sua essenza naturale riemerse dalle tenebre per riportare nel mondo luminosità.

Prese le chiavi, ci seguì attraverso le stanze affacciate allo stretto corridoio che andavano schiarendosi, illuminando il suolo e le pareti ricolme di pagine scritte rilegate con tessuti colorati, dai quali cercavano in ogni modo di fuggire. E non so perché chiese a me, mentre l’esigua folla che ci teneva lontane andava allargandosi e restringendosi, chiese quale il mio materiale preferito per creare, e le dissi plastica e rispose carbone. Entrambe materie organiche che creano forme e figure esattamente come lei, viva seppure morta, viva proprio perché morta.

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