GUAI AI VINTI

Come si vince una guerra? Le guerre si iniziano con un obiettivo e si vincono quando questo obiettivo è stato raggiunto.
Dall’altra parte, le sconfitte spesso non dipendono tanto dal mancato raggiungimento dell’obiettivo, ma da una causa più profonda, ovvero la difficoltà nell’individuarlo e quindi di conseguirlo. Uscendo dal discorso teorico e spostandosi sul piano pratico, la guerra in Afghanistan e il recente epilogo sono la migliore dimostrazione di questo principio: militarmente lo scontro tra Talebani ed esercito NATO era evidentemente sbilanciato a favore dei secondi a causa della loro superiorità tecnica e militare, tuttavia i Talebani avevano un obiettivo chiaro e conseguito con pazienza: la guerriglia a oltranza, trasformando l’invasione di Usa e alleati in un lento stillicidio fatto di continui scontri inconcludenti, obiettivo che hanno pienamente raggiunto.
Dall’altra parte la condotta Usa, complice anche il succedersi di presidenti diversi con visioni diverse, ha alternato differenti motivazioni (o pretesti) che giustificassero l’intervento: punire i responsabili dell’11 settembre (ma Bin Laden è stato catturato e ucciso nel 2011… in Pakistan), togliere una base operativa ad Al-Qaeda (la stessa organizzazione terroristica che il Pentagono ha abbondantemente foraggiato in Siria in ottica anti Assad), “esportare la democrazia”, espressione su cui vale la pena di soffermarci.
Diventato lo slogan della politica estera Neocon (ma di fatto accettato indistintamente dalle varie amministrazioni Usa che si sono succedute), si fonda su un principio: noi siamo la civiltà superiore, le nostre istituzioni, cioè la democrazia, sono le migliori possibili e la nostra missione è esportarle nel mondo civilizzando le popolazioni barbare che ancora non le conoscono (con l’odiosa retorica sul medioevo islamico). Come avviene l’esportazione? Anche militarmente, in quanto i sacrifici in termini di vittime sono ampiamente giustificabili in nome del bene supremo, cioè l’instaurazione di una nazione “democratica”, intendendo con questo nome “amica degli Usa”.
Il peccato originale della politica estera Usa è proprio questo: concepire il proprio modello come l’unico possibile e volerlo imporre con la forza. Intendiamoci, la politica estera è anche cercare di imporre sugli altri stati la propria egemonia, più o meno velatamente, ma nella concezione americana c’è una visione assolutista, che non concepisce nessun modello politico diverso. In altre parole, gli Usa nel 2001 hanno tentato di imporre una pseudo-democrazia in uno Stato con usi e costumi antichissimi e profondamente diversi, non ci si è posti il problema di capire il contesto entro cui si agiva. L’Afghanistan è un mosaico di popoli diversi, con lingue molto differenti (si va dalle lingue indoeuropee, parlate proprio dai Talebani, fino a quelle turche) unificato solo dalla fede islamica, per lo più di matrice sunnita.
La maggioranza della popolazione, ben diversa dai ceti alti residenti a Kabul, ha visto negli Occidentali degli invasori che hanno tentato di imporre con violenza un modello politico che non era il proprio e non si conciliava con la specificità afghana, che non si basa su partiti ma su rapporti di equilibrio tra le varie tribù che compongono questo Stato.
In altre parole, le truppe Nato sono state le migliori alleate dei Talebani, spingendo la popolazione a individuare in loro una difesa del proprio patrimonio identitario e culturale.
Oggi i Talebani, che hanno conservato e conquistato un innegabile appoggio da parte della popolazione, per lo meno quella di etnia Pashtun, sono a tutti gli effetti vincitori di questa guerra e, nonostante le parole del Ministro di Maio (https://www.barbadillo.it/100273-addio-a-kabul-i-talebani-e-levitabile-retorica-del-ministro-di-maio/), questo dà loro il potere di imporre le condizioni che vogliono nel proprio Stato, anche perché dall’altra parte non siamo stati in grado di proporre un modello alternativo e rispettoso delle tradizioni locali.
Vae Victis, diceva Brenno, e non c’è dubbio che, in questo caso, i vinti siamo proprio noi.
Andrea Campiglio
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