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ISRAELE: IL GOVERNO DELLA SOPRAVVIVENZA?

Pochi giorni fa in Israele si è insediato il 36esimo governo della sua storia ottenendo la fiducia del Parlamento, sebbene con numeri decisamente risicati (60 favorevoli, 59 contrari e 1 astenuto). Con questo governo si vorrebbe mettere fine a un periodo di grande instabilità, in cui il paese è stato chiamato alle urne per 4 volte in 3 anni.

Il fatto maggiormente significativo è che, per la prima volta dal 2009, il Primo Ministro non è il leader del Likud Benjamin Netanyahu ma al suo posto c’è Naftali Bennett, che in passato è stato ministro nei governi dello stesso Netanyahu, ma oggi ne sfida la leadership da destra.

Bennett è un personaggio abbastanza fuori dagli schemi su cui si è sviluppato il dibattito politico in Israele: è nato ad Haifa, città dove il Likud raggiunge sempre percentuali importanti, ed è residente nei pressi di Tel Aviv, città storicamente Laburista ma che da qualche anno ha avuto una svolta in senso liberal diventando la roccaforte di Yesh Atid. il partito liberale progressista.

Bennet, tuttavia, non appartiene né all’uno né all’altro di questi gruppi: il suo partito, Yamina, ha avuto 7 seggi e punta a contendersi lo spazio a destra di Bibi. Economicamente vicino al mondo conservatore e al modello repubblicano americano, Bennett è sionista, religioso (sebbene non ultraortodosso), vicino al mondo delle colonie e sarà il primo capo del governo a indossare abitualmente la Kippah, cosa che non è servita però ad attirargli i consensi degli altri partiti religiosi dello stato ebraico, schierati all’opposizione del suo governo.

L’accordo su cui si regge la coalizione prevede un avvicendamento tra due anni nella carica di Primo Ministro con Yair Lapid, il leader di Yesh Atid, una soluzione già in passato provata senza successo da Netanyahu.

Ultimo fatto da considerare, ma certamente non secondario, è l’estrema varietà dei partiti che sostengono il governo: da destra abbiamo appunto Yamina (anche se uno dei suoi deputati si è già sfilato, portandosi all’opposizione), Yisrael Beiteinu, il partito di estrema destra nazionalista, votato per lo più dalla minoranza russa e fortemente ostile ai gruppi religiosi ortodossi, e infine i liberal conservatori ostili a Netanyahu di Nuova Speranza.

Da sinistra invece sono arrivati a Bennett i voti dei Laburisti e di Meretz, storici partiti della sinistra israeliana dalle posizioni socialdemocratiche, e soprattutto di Yesh Atid, che in questo governo è il partito con il maggior peso. Liberali, secolari, dalle posizioni più vicine ai Democratici americani che alla sinistra tradizionale israeliana, sono di fatto i vincitori di questa tornata elettorale, avendo interrotto il potere di Bibi e allo stesso tempo affermandosi come principale forza di opposizione al Likud.

Completano la maggioranza i centristi di Blu e Bianco di Benny Gantz, militare e leader dell’opposizione a Netanyahu nelle precedenti elezioni, e infine la Lista Araba Unita.

Proprio quest’ultima è il caso politicamente più interessante: gli Arabi in Israele sono divisi in diversi partiti che in vista delle elezioni cercano regolarmente di formare una coalizione più ampia che li raccolga tutti, a volte con successo, a volte meno, unendo dai partiti islamici conservatori ai deputati cristiani, fino ai gruppi laici e ai comunisti di Hadash (che al loro interno hanno anche membri ebrei non sionisti). Fino ad ora erano sempre stati regolarmente all’opposizione.

Nelle ultime elezioni gli arabi si erano presentati divisi, accanto ai gruppi riuniti nella Lista Comune, Mansour Abbas ha presentato una lista, chiamata appunto Lista Araba Unita, di orientamento islamico moderato e conservatore, ottenendo 4 seggi e i voti per lo più degli arabi del Negev, a sud, mentre la Galilea si è confermata fedele alla Lista Comune.

All’indomani del voto, Mansour Abbas ha saputo con abilità destreggiarsi tra le schermaglie dei partiti ebraici, uscendo dal tradizionale isolamento e offrendo i propri voti agli avversari di Bibi, risultati poi decisivi, nonostante uno dei loro 4 deputati abbia preferito astenersi al momento della fiducia.

In cambio, Abbas ha ottenuto la delega agli Affari Arabi, entrando a tutti gli effetti nel governo della nazione ebraica. Non è la prima volta per un ministro arabo, ma nei casi precedenti si trattava comunque di arabi eletti in partiti ebraici.

La questione ovviamente ha ricevuto critiche da entrambe le parti, da parte ebraica si accusa di aver introdotto i terroristi islamici palestinesi nel governo, dall’altra invece si vede come un tradimento governare con chi in passato ha attuato politiche dolorose per i Palestinesi, compreso lo stesso Bennett che in un’intervista non aveva nascosto di aver ucciso molti arabi durante la sua militanza nell’esercito israeliano.

 Sicuramente le contraddizioni di questo governo e le sue fragilità sono molte e appare abbastanza difficile pronosticarne la durata, tuttavia c’è un dato politico che non può essere ignorato.

Gli arabi in Israele esistono, al di là di quello che succede dall’altra parte del muro, in Cisgiordania o a Gaza, esiste un problema anche all’interno, e cioè quello di una minoranza islamica e cristiana esclusa dal sistema politico, marginalizzata e incatenata finora in partiti condannati all’opposizione, mentre Likud e Laburisti gestivano il potere in nome del popolo ebraico e secondo gli interessi del popolo ebraico.

Comunque la si voglia vedere, la politica israeliana non può continuare a far finta che gli arabi interni non esistano, con tutte le ricadute che ciò può avere a livello di definizione di sé e dell’identità di uno stato.

L’impressione è che l’idea del grande stato dal Mare al Fiume, popolato da ebrei e governato da ebrei, mai realmente esistito in epoca moderna, stia cominciando a indebolirsi, che dopo aver conseguito una politica di muro contro muro (e in questo caso non si tratta di un’espressione retorica) nei confronti dei Palestinesi, ora gli Israeliani si siano ritrovati a dover fare i conti con una realtà che avevano cercato di oscurare finora, ma che in questo momento è a tutti gli effetti nella stanza dei bottoni e da cui può dipendere la sopravvivenza del loro stesso governo.

Andrea Campiglio

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