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IN GOD WE TRUST

Ho sempre pensato che la migliore risposta a chi ritenga inutili gli studi religiosi sia focalizzarsi sulla politica mediorientale: per quanto uno possa essere materialista o laicista, trovo piuttosto difficile avere un quadro esaustivo degli equilibri e delle dinamiche locali se non si mette al centro l’aspetto confessionale, e questo non riguarda unicamente le realtà più strettamente religiose.

Proviamo a pensare al rapporto tra Usa e Israele: il presidente Trump è il politico occidentale più attivo su questo fronte: sotto il suo mandato abbiamo assistito allo spostamento della capitale da Tel Aviv a Gerusalemme, al riconoscimento a Israele del Golan Siriano e all’elaborazione del “Piano del Secolo”, respinto pressoché all’istante dai Palestinesi, con valide ragioni (prevedeva sostanzialmente la creazione di uno stato-spezzatino composta da una serie di enclavi più o meno collegate tra loro e circondate da Israele). Personaggio chiave della questione è il Senior Advisor di Trump, il genero Jared Kushner, ebreo ortodosso con un passato tra i Democratici ma ora saldamente Repubblicano.

La vicinanza tra il Grand Old Party e lo stato d’Israele non è mai stato un mistero, soprattutto da quando, alla fine degli anni ’70, Israele ha svoltato a destra dopo decenni di governi laburisti; è tuttavia sorprendente notare come nelle ultime elezioni il 71% degli Ebrei americani abbia votato per la Clinton. Certo, non si deve dare per scontato che tutti gli ebrei americani siano sionisti e dall’altra parte bisogna tener conto che la pur minore compagine di ebrei “trumpiani” sia comunque una lobby molto imponente da un punto di vista economico e dell’informazione, però questo dato è interessante perché ci fa capire che il gruppo filoisraeliano più rilevante (almeno numericamente) all’interno dei Repubblicani non è tanto quello ebraico bensì quello degli Evangelici.

Costoro sono una corrente interna al Protestantesimo, sviluppatasi a partire dall’800, ma che ha assunto una notevole rilevanza negli ultimi 50 anni: mentre le Chiese Protestanti storiche si sono avviate verso un percorso di riforme sempre più progressiste, su modello dei protestanti europei, in USA gli Evangelici hanno fatto un percorso inverso: creazionisti, pro Life, interpreti letterali della Bibbia con grande attenzione all’Antico Testamento, guardano con sospetto ai Cattolici, sono visceralmente anti islamici e si contraddistinguono per una forte tensione verso l’Apocalittica e la fine del mondo.

Vengono stimati tra il 16 e il 25% della popolazione, concentrati in quella che viene appunto definita Bible Belt, ovvero un’area culturale grossomodo corrispondente agli stati del sud est, soprattutto nelle aree rurali ove sono la maggioranza. Nel corso degli ultimi anni si sono saputi tramutare in un’importante lobby, ufficialmente apolitica ma nei fatti molto vicina ai Repubblicani (alle ultime elezioni solo il 16 % di loro ha votato Clinton), con una grande capacità organizzativa e di mobilitazione.

Fondamentali nelle due vittorie di George W. Bush, con il tempo hanno acquisito sempre più potere interno e si sono radicalizzati: alle primarie del 2016 il loro candidato è stato Ted Cruz, figlio di un pastore, che nonostante l’avversione dell’establishment di partito ha raggiunto il 25 % delle preferenze piazzandosi al secondo posto dietro al vincitore Trump.

L’attuale presidente, infatti, arrivò alla candidatura con un profilo poco confessionale e nel corso della sua storia politica e imprenditoriale non aveva mai dato cenno di avere una spiccata sensibilità verso certi temi ( Trump arriva da New York, dove gli Evangelici sono una minoranza ben poco rilevante), tuttavia capì l’importanza di questo bacino che durante le primarie si era dimostrato freddo verso di lui e cominciò un lavoro diplomatico per trasbordare, con successo, per accaparrarsi quei voti. Questa strategia passò attraverso la scelta del vicepresidente, Mike Pence, ex governatore dell’Indiana ed espressione politica del mondo evangelico. Il suo caso è abbastanza esemplare: ex cattolico, si converte (o, come dicono loro, “rinasce”) ai tempi dell’Università e diventa a poco a poco uno dei principali politici espressione di questo mondo, con un parallelismo simile a quello che in Brasile è accaduto con Bolsonaro, anche in questo caso un cattolico convertito all’Evangelicalismo che proprio da questo mondo trae voti e appoggi.

Ma tutto ciò come si incrocia con la politica mediorientale? Nella loro interpretazione letterale dei testi biblici gli Evangelici sono fermamente convinti che Dio in persona abbia dato la terra d’Israele agli Ebrei (rompendo con la tradizione cattolica e ortodossa che vuole i Cristiani come “Verus Israel” e quindi nuovi legittimi eredi della Terra Santa), ragione per cui sono sostenitori del sionismo addirittura da prima dello stesso Herzl. Nella loro visione lo stato di Israele è fondamentale per la seconda venuta di Cristo, quella finale.

Secondo la tradizione ebraica a cui si rifanno, e che è alla base del sionismo religioso, il Messia si manifesterà per realizzare il Regno di Dio quando tutti gli ebrei saranno di nuovo radunati nella terra di Israele (interpretazione contestata anche in alcuni ambienti ultraortodossi, dove invece si ritiene che sarà il Messia a ricondurre gli Ebrei in Terra Santa ). A questa tradizione ebraica aggiungono l’idea, ripresa da San Paolo, che gli ebrei siano destinati a credere in Gesù solo in occasione della sua seconda venuta.

L’idea degli Evangelici è, in estrema sintesi, favorire il ritorno degli Ebrei in Israele, perché quando saranno tutti tornati là allora il Cristo si manifesterà e li convertirà aprendo così le porte del Regno dei Cieli, e coerentemente con questa visione religiosa si adoperano per portare avanti e difendere le istanze di Tel Aviv anche a Washington. Certo, questo non significa che Trump attui questa politica unicamente per venire incontro al suo elettorato religioso, ci sono molte altre ragioni strategiche ed economiche, ma tuttavia rimane una chiave di lettura non secondaria e che merita di essere sviluppata.

In tutto ciò, credo che si manifesti molto chiaramente come sia sempre più falsa l’espressione marxista di “religioni come oppio dei popoli”, puro esercizio di distrazione delle masse per distoglierli dalle cause materiali dei processi politici. Le religioni esistono, contano e influenzano le dinamiche decisionali di un Paese e qualsiasi visione non ne tenga conto è destinata a essere, quantomeno, superficiale e incompleta.

Andrea Campiglio

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