UNA NUOVA STAGIONE PER L’ARTE
Quel profondo malessere da qualche tempo diventato autentica paura per il futuro, che già ha spinto il popolo ad uscire da un letargo pluridecennale per cercare risposte adeguate nella politica, sta via via portando allo scoperto i nomi e i volti di quell’ormai sparuto gruppo di ricercatori usi a non unirsi al coro degli onnipresenti intellettuali del pensiero conformato ai diktat del “politicamente corretto”. Accanto ad alcune altre ricerche propedeutiche a un radicale cambiamento ci sta, a pieno titolo, quella partita da Genova un decina di anni fa, che mette al centro l’urgenza di dar vita ad una nuova stagione dell’arte figurativa, finalmente basata: a) sull’analisi del processo filosofico che ha portato a negligere una delle più antiche e nobili forme dell’espressione umana di cui l’Italia è stata per tanto tempo la patria elettiva; b) sulla ri-appropriazione e/o sul ri-apprendimento delle tecniche tradizionali; c) sull’avvio di una discussione ad alto livello attorno ai contenuti dell’arte che dovranno misurarsi con la necessità di rinobilitare la nostra immaginazione trasferendola su altri binari.
Dal momento che si tratta di proseguire un cammino che sappiamo essere complesso con la chiarezza e la determinazione richieste dalla confusione mentale propria del nostro tempo, abbiamo pensato di far ricorso a uno dei più collaudati strumenti della comunicazione culturale, cioè a quel manifesto che consente di individuare un programma preciso esprimendolo attraverso un’efficace operazione di sintesi. Manifesto i cui punti dovranno essere elaborati attraverso un lavoro di discussione e ricerca che abbiamo in mente di sviluppare nel corso dell’anno appena iniziato. L’idea di riproporre il metodo proprio delle avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento, ci è venuta nel momento in cui abbiamo deciso di ripercorrere con spirito critico la storia dell’arte del secolo scorso e, in particolare, quando la nostra attenzione si è concentrata sui punti del Manifesto Dada, il cui sconvolgente contenuto eravamo stati abituati a collegare con la barbarie propria degli anni in cui era stato partorito. A ben vedere una risposta superficiale e probabilmente di comodo, in quanto il Dadaismo non irrompe sulla scena come risposta irrazionale all’irrazionalità dell’inaudita violenza della Prima Guerra Mondiale, ma che, al di là di talune asserite contrapposizioni con movimenti artistici di poco antecedenti, rappresenta il naturale proseguimento di un processo di destrutturazione radicale dell’esistente da molto tempo in atto e che, partendo dall’attacco, apparentemente sensato, agli aspetti più deteriori della cultura occidentale (e in contrapposizione con il materialismo e lo scientismo positivista allora imperanti), stava accelerando il passo per mirare dritto al cuore dei pilastri stessi della nostra società, servendosi stavolta di un manifesto di rovinosa potenza che strumentalizzava l’artista e il suo ruolo, capovolgendone il significato. In altre parole, coloro che, in virtù di un innato talento coniugato alla tecnica conseguita attraverso la disciplina del mestiere, erano sempre stati gli interpreti privilegiati del bello e del sublime, dovevano diventare i profeti di un nuovo ordine antropologico, basato sul disordine mentale che sarebbe derivato dalla programmata perdita dell’identità e della memoria storica, dalla cancellazione della logica e dal tramonto delle cellule basilari della società, a partire dalla famiglia. Scopo che veniva espresso nel corpo del manifesto in maniera brutale e inequivocabile: “Qualsiasi prodotto del disgusto suscettibile di trasformarsi in negazione della famiglia è Dada”.
Questo vero e proprio programma politico che si compiaceva nel dichiararsi sfacciatamente insensato, venne sorprendentemente accolto con favore da un numero sempre crescente di artisti, poeti e scrittori europei di diversa formazione e provenienza, i quali, nel giro di qualche decennio, finirono per attribuirgli il valore delle stesse Tavole della Legge. Premesso questo, appare evidente che un tale successo possa spiegarsi solo partendo dallo spirito dei tempi che, dopo essersi consolidato nelle élite intellettuali di alcune capitali europee nella seconda metà dell’Ottocento, trovò il modo di raggiungere rapidamente ogni angolo del vecchio e del nuovo mondo, servendosi in particolare delle suggestioni propagate di salotto in salotto dalla teosofia che, nella sua ultima versione, combinava scienza e misticismo, avvalorando l’ecclettismo e il sincretismo nella convinzione che la verità fosse accessibile solo attraverso la chiaroveggenza. Il fatto che l’origine di questo ordine di pensiero o, per meglio dire, di sotto-pensiero fosse poi stato opportunamente celato assieme al ricordo della ridicola e imbarazzante cerchia di spiritisti globetrotter che così abilmente lo aveva divulgato, non toglie nulla all’influenza che esso finì per esercitare su una miriade di artisti senza più certezze né valori e che, proprio in quella confusione di relitti storici e preistorici riportati a galla dalla Società Teosofica di Helena Petrova Blavataskj e dalla sua corte di santoni, finirono per trovare un’infinità di argomenti adatti a crearsi identità nuove e facilmente riconoscibili, al di fuori della tradizione e spesso della stessa ragione, e che potevano imporsi grazie alla tecnica della provocazione ad oltranza, adottata anche in forme disgustose apparentemente per colpire l’immaginazione mentre, in realtà, l’addormentavano e annichilivano.
Miriam Pastorino
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