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QUELLA “CARCASSA” DELLA FAMIGLIA TRADIZIONALE

Ha ancora senso parlare di Famiglia?

La “famiglia tradizionale”: espressione quanto abusata per riscuotere un unanime successo contro i correttissimi ideologi del gender e gli altri progressisti personaggi brechtiani che occupano la scena gaio-mondana. Eppure dobbiamo ammetterlo, noi nostalgici ma anche sollevati superstiti di quella asfissiante tradizione dei pranzi e delle cene familiari, dei centrini e dei golf fatti a maglia, dello sguardo austero paterno che si combatte con quello del nonno l’ultima fetta di roast-beef, dei mille complessi edipici freudiani dai retaggi ottocenteschi: non abbiamo più nulla a che vedere con questo mondo. Siamo molli, devirilizzati – le donne defraudate della loro femminilità – stressati, individualisti, addestrati al sogno, allo spreco, amanti del proibito che, però, è diventato più legale del legale, anzi incentivato! Richiamarci alla “famiglia tradizionale” per difendere una micro-comunità utopica e inesistente vuol dire, oggi, preservare una realtà ben diversa: un incubo domestico, fatto di piccoli odi, rancori e meschinità, che attende, inevitabile, la benedizione del divorzio.

Questo perché dopo più di un cinquantennio di cultura sessantottina, post-sessantottina, post-strutturalista e chi più ne ha più ne metta, che si risolve nella nostra inclinazione a concepire la vita come sede del diritto e non del dovere, come luogo di espressione e di emancipazione di un sé slegato da Storia e comunità, la “famiglia tradizionale” non è più in grado di rappresentare quell’idilliaco sogno di unione e di salvezza collettiva dalla frammentazione sociale. Composta dal binomio padre-madre e di due figli (meglio uno, chissà che un altro ci depauperi del diritto sui nostri beni!), questo raggruppamento plurisecolare ora al centro del dibattito non può che essere una remake in salsa piccolo-borghese di un’unione che si basa sulla paura. Checché ne dicano i predicatori, laici o cristiani, intenti a difendere la famiglia tradizionale come fine, nella realtà dei fatti, la famiglia è diventata un diritto contro la paura, contro l’ansia della solitudine, in nome dell’amore, della sicurezza, della felicità, è il mezzo di un’impossibile emancipazione individuale, sia per l’uomo che per la donna, di oggi. Un mezzo inopportuno che così concepito, si rivela anche anti-comunitario al massimo, auto-escludente, isolazionista, che non è in relazione al ritmo sociale, che interdice l’altro – potenziale nemico! – e che emargina addirittura i poveri nonni e le vecchie prozie, abbandonati negli ospizi, in attesa che crepino per rilevare una cospicua eredità.

La famiglia tradizionale, pur non volendo esserlo, pur cercando di richiamarsi ad istanze e rapporti anteriori, è l’altra faccia della medaglia delle famiglie arcobaleno, perché inevitabilmente opera con una materia – noi tutti – figlia di un altro modo di produzione – rispetto a quello dei nostri nonni, educati ad un’economia del sacrificio e della rarità – quello dei servizi, del terziario, dell’industria leggera, antropologicamente costituiti, addestrati, educati, ad una realtà frivola, anodina, veloce, precaria, liquida, votati a pensare il mondo come all’esercizio di un diritto su di esso e al matrimonio come un diritto all’amore, alla propria felicità, perché vediamo nel partner non un completamento, ma il nostro riflesso narcisistico, un oggetto da collezione che rende il “rapporto d’amore un dialogo con noi stessi” (Baudrillard). Quale famiglia tradizionale, di fronte ad una moglie ormai cinquantenne e sfatta, impossibilitata a competere con le top-model che sfilano sulle passerelle dei cartelloni pubblicitari affacciati su ogni via, se non una famiglia profondamente intessuta di risentimenti e repressioni? Quale famiglia tradizionale se il padre non può più vietare e il figlio detta legge? Quale famiglia tradizionale per la nostra individualità addestrata al sogno, ad un continuo immagazzinare esperienze extra-ordinarie, abituata, con un clik, ad ottenere una realtà simulata – dal Game-boy allo smartphone, dall’infanzia all’età della ragione? Quale famiglia tradizionale per una società scristianizzata e secolarizzata, indisposta alla crocifissione quotidiana per mantenere stabile la felicità domestica, vessata ogni giorno dallo stimolo a godere, a gioire, a consumare, che ci proviene da ovunque?

La famiglia tradizionale, oggi – quindi tradizionale solo per composizione, non per valori culturali – è “l’amore finché dura” che non appena cessa si trasforma in un incubo costretto nelle quattro pareti di casa a cui si rimedia con il divorzio. A questo punto difendere la famiglia tradizionale è anacronistico, è uno slogan – politico? – superato dai modi di produzione che hanno distrutto gli antichi simbolismi e le vecchie necessità, se si limita a legittimare le famiglie “normali” nella loro inevitabile esistenza usa e getta. Non avrà perciò grandi prospettive se non evade dallo stesso piano del diritto su cui si situa il suo alter-ego arcobaleno, che la rende ugualmente dannosa e fragile. Perché la crisi della famiglia non è certo dovuta a queste realtà minoritarie e diverse, ma ad uno squilibrio interno ai rapporti umani, che si può evitare solo invertendo il movimento che mette in relazione la comunità alla famiglia, per fare della famiglia un contenuto subordinato alla comunità. Ristabilire le due istanze su un tempo comune, parallelo, per rendere la famiglia un concetto allargato –  il nonno da rispettare, la prozia da assistere, il padre da cui imparare, la madre a cui obbedire, il vicino da ascoltare – il luogo di educazione al dovere nei confronti della società.

Lorenzo Vitelli per L’Intellettuale Dissidente

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