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Contro la moda dello storytelling: l’arte (politica) di vivere con discrezione

E fu così che l'unico politico alternativo risultò Marine Le Pen

E se, dopo i quindici minuti di fama, avessimo tutti diritto a quindici minuti di oblio? Se ci sottraessimo, magari non una volta per tutte, ma almeno una volta ogni tanto, alla tirannia dell’esserci o almeno dell’apparire, alla reperibilità costante, alla vita a misura di Facebook e di selfie e perfino alla politica come comunicazione del nulla? Insomma, all’incessante, invadente chiacchiericcio che ci circonda? Ammettiamolo, aveva ragione Lacan: «Ecco il grande errore di sempre: credere che la gente pensi quello che dice».

La tesi può sembrare controcorrente, nell’evo del Grande Rumore. Anche per questo è così affascinante l’ultimo saggio di Pierre Zaoui, filosofo francese specialista di Spinoza e Deleuze, tradotto in Italia col titolo L’arte di scomparire – Vivere con discrezione. Zaoui pensa quello che dice e dice quello che pensa. E in più è pure simpaticissimo.

Professor Zaoui, può definire la discrezione?  

«Per me una delle definizioni migliori resta quella che ne dà Proust nei Guermantes: “Il privilegio di poter assistere alla propria assenza”».

Un privilegio, si direbbe, ben poco contemporaneo.  

«Sì, invece. È una delle ambiguità della nostra epoca: da un lato, la smania di essere visti; dall’altro, le infinite possibilità di non farsi vedere. Già Baudelaire diceva che solo nella folla di una grande metropoli era possibile perdersi. In un villaggio medievale, dove tutti si conoscevano, era molto più difficile essere discreti».

È un esempio un po’ remoto.  

«Allora ne faccio un altro. Io vengo da una città di provincia abbastanza spaventosa come Grenoble. Quando vivevo lì, i miei genitori sapevano che mi ero innamorato prima di me».

Perché è così importante sparire?  

«Attenzione, quel che è prezioso, nella discrezione contemporanea, è che può essere una virtù discontinua. Non amo la discrezione perpetua o sistematica. Non si tratta di sparire del tutto, ma di poter scegliere quando farlo. Salvo poi riapparire, magari quando si ha davvero qualcosa da dire. Prima però è necessario liberarsi da una delle grandi paure contemporanee: non è vero che quando non si appare non si esiste. Anzi, spesso si esiste più intensamente quando non si appare. Come quando assaporiamo il piacere di guardare l’amata che dorme o i figli che giocano. O la soddisfazione che provavamo, da ragazzi, a stare in fondo alla classe a sonnecchiare accanto al termosifone mentre veniva interrogato qualcun altro».

Ma perché scomparire è un’arte?  

«Perché si tratta, in definitiva, di scegliere il buon momento per farlo. E l’arte è appunto la scelta del momento giusto. Non è un gesto morale, non è la vecchia discrezione aristocratica, intesa come buona educazione, savoir vivre, cortesia. Si tratta di un gesto assolutamente volontario e direi anche politico».

Appunto: dal suo saggio si evince che nella società contemporanea la discrezione sia una forma di dissidenza o addirittura di resistenza.  

«Imparare a rendersi impercettibili o a godere della propria sparizione non è un’alternativa alla politica tradizionale, ma è forse il solo mezzo per riuscire a sopportarla. Uno dei drammi della vita politica di oggi è che i comunicatori hanno preso il potere e hanno trasformato la politica in messinscena».

Ma se oggi la politica è storytelling, come teorizza il suo collega Christian Salmon, è un po’ difficile pensare a una politica discreta.  

«Bisogna però vedere i risultati. Prenda la Francia di oggi. I socialisti hanno vinto le elezioni nel 2012, ma non avevano alcun programma e hanno cercato di nasconderlo con una serie di annunci. Mancava e manca del tutto una politica dal basso, quella che si vede poco, che si fa nel quotidiano, con le associazioni e con la gente. Le politiche efficaci sono quelle discrete. Come dimostra il gran successo del neofascismo francese».

Intende il Front national di madame Le Pen?  

«Sì. Il suo è l’unico partito che lavora sul terreno, che ascolta le persone, che fa insomma quel che dovrebbe fare la gauche. E infatti vince. Il Fn non è solo comizi reboanti. Dietro la sua crescita c’è una politica capillare, diffusa e poco vistosa. Discreta, insomma».

Alla fine, pare di capire che lo show non debba necessariamente andare avanti. 

«Lo farà ancora, credo. Ma il continuo spettacolo del mondo ha necessariamente bisogno di quelle che nel mio saggio chiamo “anime discrete”. Perché ci sia una parola, è indispensabile che ci sia qualcuno che l’ascolta. Se qualcuno parla, qualcun altro deve tacere. Questa asimmetria è indispensabile. “Nella tua battaglia con il mondo, asseconda il mondo”, diceva Kafka. Quando non lo farà più nessuno, allora davvero il mondo scomparirà».

Ultima domanda: perché i francesi si appassionano tanto alla filosofia e ai filosofi?  

«Potrei dare una risposta istituzionale: perché la filosofia è una delle poche materie obbligatorie in tutte le scuole superiori, cioè non solo nei licei, ma anche negli istituti tecnici».

E la risposta non istituzionale?  

«E’ tutta colpa di Voltaire. È lui ad aver inventato la figura di un “filosofo” che in realtà non parla affatto di filosofia, ma commenta l’attualità, tutta, politica, sociale, artistica, alimentando il perpetuo dibattito francese. Così vengono etichettati come “filosofi” persone che in effetti non lo sono affatto, tipo Jean-Paul Sartre ieri o Bernard-Henri Lévy oggi. In questo senso, in Francia i filosofi tutto sono meno che discreti».

(tratto da La Stampa)

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