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PLATONE, OVVERO USCIRE DAL MODERNISMO

Piccolo vademecum per ogni comunitarista degno di questo nome

Platone è universalmente riconosciuto come il padre della filosofia occidentale, il punto di riferimento imprescindibile per chiunque si voglia avvicinare alle radici della nostra civiltà. Ma se è vero che questo gigante del pensiero ha messo le fondamenta che hanno condizionato tutte le successive costruzioni filosofiche, allora nell’Occidente contemporaneo cosa è rimasto di Platone? La domanda diventa oltremodo interessante se si pensa che al cuore della sua opera vi è la precisa intenzione di insegnare il Vero, ovvero qualcosa che valga a prescindere dal contesto storico-culturale. Se quindi per Platone la prima caratteristica che contraddistingue la Verità è il fatto che non sia legata alla dimensione spazio-temporale, possiamo già trarre almeno due conclusioni: anzitutto che la visione platonica ci riguarda ancora direttamente, in secondo luogo che questa visione si trova agli antipodi rispetto allo sfondo ideologico occidentale moderno.

In questo senso un tema centrale all’interno del pensiero del filosofo ateniese, la giustizia, è forse l’esempio migliore per capire lo spirito profondo della dottrina platonica e la totale divergenza rispetto alla direzione presa oggi. Per poter apprezzare appieno la portata della teoria platonica della giustizia è però necessario fare prima un passo indietro: dando uno sguardo all’Atene del V sec sarà infatti possibile comprendere le esigenze che portarono alla nascita della filosofia.

Dopo la vittoria nelle guerre persiane la Polis stava vivendo il passaggio da un ordinamento fondamentalmente aristocratico ad uno maggiormente democratico (anche se il termine non rispecchia affatto ciò che intendiamo oggi con democrazia), ovvero un ordinamento dove la decisione politica ed il diritto dipendevano sempre più dalla maggioranza numerica piuttosto che dal rango. In questa società agitata dal cambiamento, crescono di quantità ed importanza i retori e i sofisti, persone esperte nell’uso della retorica che vendevano i propri servigi al miglior offerente per garantirgli il massimo seguito da parte dei cittadini. Il miglior governante non è più colui che meglio serve la comunità in maniera impersonale e dovendo rispondere del suo operato in un’assemblea di pari, ma piuttosto chi convince il maggior numero di persone a scommettere sull’onestà dei propri propositi. La comunità politica ateniese si frammenta in mille interessi particolari e l’autorità tradizionale entra in uno stato di profonda crisi: l’insegnamento sofistico interpreta infatti la verità come il mero utile del più forte, rendendo l’individuo arbitro ed interprete del vero non solo sul piano dell’esistenza singola, ma anche in ambito sociale. All’instabilità della società segue necessariamente l’instabilità politica: si susseguono in pochi anni diversi regimi sanguinosi. Socrate, il maestro di Platone, viene giustiziato dopo il crollo del dominio dei Trenta Tiranni, a quattro anni esatti dalla restaurazione democratica.

Socrate era stato il primo a reagire alla deriva sofistica, contrastando l’attacco da essi portato alla tradizione ellenica. Infatti, la storia del pensiero greco è la storia di una lunga battaglia giocata sull’interpretazione della giustizia. I capolavori omerici prima e i classici della tragedia greca testimoniano infatti  una precisa idea di giustizia: giustizia è il rispetto dell’ordine divino (kosmos) a cui ciascuno deve sottomettersi. Non c’è niente di “morale” in questa giustizia: così come appare giusto che il leone cacci e divori altri animali, anche l’uomo si comporta secondo giustizia quando rispetta la propria natura, fatta di limiti e necessità. Quando l’uomo viola questi limiti, compie un peccato di hybris e viene punito dalla divinità per la sua arroganza. In quest’ottica la giustizia non ha tempo, così come la Natura non ha tempo, ma semplicemente è. Nella tradizione quindi vigeva un’idea di giustizia come rispetto di norme di comportamento dovute alla necessità superiore di mantenere l’equilibrio cosmico: essere giusti non significava altro che adeguare le proprie azioni alla Dike (necessità). Questa concezione di giustizia naturale viene dunque messa progressivamente in discussione, fino ad arrivare alle tesi sofistiche: la legge non sarebbe più qualcosa di proveniente da una necessità esterna a cui ci si deve adeguare, ma sarebbe piuttosto la giustificazione di facciata con cui il potere si mantiene in un determinato momento storico.

Platone si inserisce quindi in un contesto di grande agitazione culturale, dove la società e l’individuo sono interpretati come elementi contrapposti ed in conflitto: alla giustizia arbitraria dei sofisti egli vorrà allora contrapporre, come prima cosa, una visione che concili la natura individuale e quella comunitaria. Nella dottrina platonica infatti esiste infatti un preciso collegamento fra la struttura dell’anima individuale e la forma della comunità, ma non solo, nell’una come nell’altra la medesima causa suscita il medesimo effetto. Il senso della vita individuale, al pari di quello comunitario, è infatti l’eudemonia – termine tradotto in italiano con “felicità”, da intendersi però nel senso classico di compiutezza, partecipazione alla sfera del Divino (δαίμων, demonica appunto). Questo equilibrio mistico potrà essere raggiunto unicamente se sarà rispettata una precisa gerarchia fra le parti dell’organismo: sia l’anima che lo Stato sono infatti soggetti ad una tripartizione.

Facendo sua una visione comune a tutte le tradizioni indoeuropee, Platone separa l’anima in spirito concupiscibile, spirito affettivo e spirito razionale. Lo spirito concupiscibile, il più legato alla materia e agli appetiti fisici ricopre il ruolo più basso della scala gerarchica: se l’uomo infatti si fa guidare dal desiderio materiale rinunciando alla dimensione verticale dell’esistenza, vivrà la sua vita senza possibilità di elevarsi al divino. Allo stesso modo per Platone la società si suddivide in tre caste: la casta dei produttori, la casta dei guardiani e la casta dei sapienti. Se i produttori sono legati al commercio e alla creazione di beni, i guardiani (caratterizzati da uno spirito prevalentemente affettivo) devono dedicarsi alla salvaguardia della Polis, mentre i sapienti dovranno guidare le decisioni della comunità in campo politico. Anche qui esiste una gerarchia precisa, che non ci deve però far giudicare moralmente il regime di ineguaglianza che vige nella Repubblica platonica: si tratta infatti di rispettare il ruolo dettato dalle proprie inclinazioni naturali, a cui corrisponde una precisa serie di diritti e di doveri. In questo senso è quindi importante sottolineare come la casta dei produttori sia quella con un carico minore di doveri: possono dedicarsi liberamente a coltivare la propria sfera privata, crescendo una famiglia e svolgendo responsabilmente le proprie attività. Al contrario  guardiani e sapienti, ovvero coloro che avranno maggiori responsabilità, vengono cresciuti in un regime comunitario, dove la proprietà privata è bandita e l’istituzione famigliare stessa è soppressa. Questo enorme sacrificio, che però corrisponde ad una precisa inclinazione spirituale, consente però ai futuri protettori dello stato di agire sempre in maniera impersonale, avendo come obbiettivo finale non il proprio tornaconto ma quello della comunità intesa nella sua totalità. Essi sono i migliori a governare la comunità perché sono coloro che meglio governano le inclinazioni più basse della propria anima.

L’ingiustizia quindi è ciò che si verifica quando la gerarchia della comunità non viene rispettata e le parti che la compongono si comportano in maniera individualistica: i sapienti ragionano in funzione del proprio interesse esclusivo, i guardiani agiscono con prepotenza ed eccesso di passione, i produttori pretendono di sostituirsi alla guida governativa. Giustizia è invece il rispetto dell’ordine naturale, in cui il proprio benessere e quello della comunità sono strettamente vincolati e si basano sulla perfetta sinfonia tra le parti. Per Platone l’ineguaglianza fra gli uomini è un aspetto irriducibile della natura umana e diventa quindi fondamentale il motto socratico “γνῶϑι σεαυτόν” (conosci te stesso) inteso come conoscenza dei propri limiti e del proprio ruolo, così da poter raggiungere l’eudemonia, sia individuale che comunitaria. L’ineguaglianza è in questo senso garante di un equilibrio perfetto, fondato sull’adesione e sul riconoscimento delle proprie inclinazioni spirituali che si traducono nell’adesione spontanea ad un ruolo (essere persona significa appunto interpretare un ruolo sociale).

La visione dello stato di ineguaglianza come stato di giustizia non solo pone Platone come un restauratore della visione tradizionale in opposizione alle tendenze anarchiche della sua contemporaneità, ma anche come il rappresentante di una Weltanschauung aristocratica radicalmente agli antipodi col nostro mondo. Eppure, nonostante i secoli di distanza c’è estrema attualità nel superamento platonico della sterile opposizione individuo/società: un insegnamento senza tempo che ancora oggi può ispirare la teoria politica, fornendo spunti estremamente utili a contrastare la deriva dell’ideologia occidentale moderna, la quale ricorda per molti  versi quella dell’Atene del V-IV sec. Platone è un punto di riferimento irrinunciabile per chiunque voglia farsi portatore di una cultura del limite, della realizzazione della persona nella comunità e dell’elevazione spirituale dell’individuo. Ecco perché non potevamo non includerlo nel nostro Pantheon.

Daniele Frisio

 

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