Glenn Gould: la leggenda del pianista che se ne fregava della folla
Il consumo, l’arte che perde la propria componente intellettuale e diventa merce, l’ordine prestabilito. Cosa c’entra Glenn Gould con tutto ciò?
Fin dall’inizio, Glenn Gould era diverso. Unico nel suo genere, indipendente, bambino prodigio diverso da qualsiasi altro, aveva incontrato in tenera età quello strumento dalla voce roca, eppure potenzialmente limpida e potente, magicamente perfetto: il pianoforte. Aveva iniziato a prendere lezioni di pianoforte con la madre, il piccolo Glenn, all’età di tre anni, quando aveva già dimostrato una perfetta intonazione.
Se un ictus non l’avesse colpito il 27 settembre del 1982, oggi avrebbe ottantadue anni.
Se la sorte gli avesse regalato un futuro differente, avrebbe sicuramente continuato a studiare, a scrivere libri e a comporre, perché quella era la sua vita e, senza ombra di dubbio, la sua natura.
Fu straordinario nel colorare in modo assolutamente originale qualsiasi partitura, dimostrando l’eccezionale vitalità della musica classica, ancorché divenuta uno strumento dimenticato dalla Storia. Contro la prassi esecutiva che nei decenni aveva ridotto il pianismo a pura esibizione, Glenn Gould si era posto controcorrente affinché la libertà interpretativa non trovasse limiti e si era fatto, invero, interprete della musica in un momento in cui essa si trovava in una fase di transizione, poiché la civiltà moderna, seduta sulle proprie abitudini culturali e sul proprio ritmo e stile di vita, concepiva – e concepisce tutt’ora – tutto ciò che non è parte della cultura tecnologico-scientista come una eredità museale e pertanto escludeva la musica classica dal circolo delle idee contemporanee.
Il suo talento sopraffino e sopra le righe lo aveva portato a suonare le Variazioni Goldberg di Bach più stupefacenti che la storia pianistica avesse visto, parimenti al rifiuto, attorno ai trent’anni, di dare concerti ripudiando in tal modo lo spettacolo, il mercato, la merce, ripudiando dunque la reificazione musicale in favore del momento creativo, intimo, liberato da qualsivoglia condizionamento esterno.
Glenn Gould era un tipo celebrale, un idiosincratico solitario, ma era anche un comunicatore di talento, a suo modo. Si era guadagnato la fama di personaggio bizzarro a causa di alcune “manie” che non lo hanno mai abbandonato; aveva, per esempio, l’abitudine di canticchiare a bocca chiusa alcuni passaggi del brano che stava eseguendo e, di più, era solito staccare una mano dalla tastiera, durante le esibizioni, per dirigere un’orchestra invisibile, rapito dalla sua stessa musica. Suonava sempre e soltanto con il suo sgabello prediletto – una sediolina pieghevole costruitagli dal padre – che non ha mai cambiato nel corso della sua vita. Lodato in tutto il mondo – il suo tour in Russia nel 1957 è ancora ricordato con affetto da Vladimir Ashkenazy e da tutti gli altri che hanno gremito le sale per sentirlo – manifestava, tuttavia, la volontà di ritirarsi progressivamente dalla vita pubblica.
Eccentrico ipocondriaco, la cui personalità ossessiva (indossava cappotto e guanti in qualsiasi stagione, non importava la temperatura) era stata aggravata negli ultimi anni da cocktails di antidepressivi e di pillole contro l’ansia perenne (che tuttavia si dimostravano sempre più dannose che utili), aveva colto l’incommensurabile differenza tra l’attività concertistica e la registrazione discografica. Quella del pianista canadese è una leggenda che si tramanda esclusivamente attraverso i dischi, che non sono mai passivi – e quindi una semplice replica – bensì sono essi stessi parte del processo creativo. Glenn Gould era morbosamente attratto dalla possibilità di poter suonare con uno o più microfoni sopra e attorno al pianoforte, dal momento che riteneva la ripresa del suono e la fase del missaggio altrettanto decisive come l’esecuzione stessa del brano, poiché consegnavano la possibilità di essere ripetuti all’infinito.
Si è sempre pensato che l’abbandono del palcoscenico, avvenuto nel 1964 all’apice di una carriera folgorante, quando Glenn aveva soltanto trentadue anni, sia stato il sintomo di un disagio più ampio e problematico, probabilmente spinto dalla volontà di mettersi alle spalle il mondo rinchiudendosi nelle sale di registrazione. La verità era che Glenn Gould odiava il palcoscenico e riteneva umiliante dover suonare di fronte ad un pubblico, perciò capitava spesso che annullasse i concerti all’ultimo minuto e senza dare alcuna motivazione. Nel 1964, dunque, aveva voltato le spalle al circuito concertistico in favore della creazione solitaria, preferendo incanalare le proprie energie sulla registrazione.
Il consumo, l’arte che perde la propria componente intellettuale e diventa merce, l’ordine prestabilito. Cosa c’entra Glenn Gould con tutto ciò? Egli ha cambiato l’ordine, è andato contro tutto e tutti, ha rifiutato il sistema ed ha liberato il suo spirito, quello che è nient’altro che arte, quello che non si sente più obbligato verso la società – verso il popolo, diceva Thomas Mann – giacché rifiutava i bisogni della folla in favore di una indagine personale, libera, sicuramente molto più autentica. Glenn Gould forse non è servito a sé stesso, poiché vittima della sua stessa ipocondria, ma è sicuramente servito a noi, dal momento che ci ha regalato le interpretazioni pianistiche più potenti e sublimi, impossibili da realizzare soltanto con la più fine tecnica pianistica.
Glenn Gould fremeva su quel piano e diveniva un tutt’uno con la musica.
Senza tempo.
Senza spazio.
Claudia Grazia Vismara
(tratto da http://www.lintellettualedissidente.it)
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