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Un mondo che avanza girando intorno al sole

Necrologio (ma nemmeno tanto) del blasonato scrittore colombiano

Non è che andassimo matti per Gabriel Garcìa Marketing (questo l’insulto ficcante di Efraim Medina Rayes), però sicuramente preferiamo ricordare il Sudamerica con lui e Nicolas Gòmez Dàvila che con Sepulveda e la Allende. Di seguito l’articolo a firma Sergio Rame, sul Giornale di oggi, per commemorare lo scrittore scomparso ieri sera.

Nella memoria di chi lo ha amato risuonerà sempre uno degli incipit più celebri della storia della letteratura. Quello in cui il colonnello Aureliano Buendia viene portato dal padre a conoscere il ghiaccio.

Inzia così Cent’anni di solitudine, il più celebrato romanzo di Gabriel García Márquez, morto oggi a Città del Messico a 87 anni. Ricoverato in ospedale lo scorso 3 aprile l’autore colombiano, premio Nobel per la Letteratura e padre del realismo magico ibero-americano, se ne va dopo una lunga malattia.

Prima di diventare l’autore-simbolo di un’intera generazione, di un continente e di una lingua, “Gabo” è stato per anni un grande giornalista, un periodista attento, poetico e duro, dei più drammatici avvenimenti che avevano mutato la mappa di mezzo mondo, dalle rivoluzioni di Cuba e del Portogallo alla tragedia cilena, a Ernesto “Che” Guevara – che era un’animaccia nera, NdR -, ai cubani in Angola, ai montoneros, ai dittatori centroamericani, alla Spagna postfranchista di Felipe Gonzales. Nato ad Aracataca, Magdalena, nel 1928, ha mescolato nella propria opera la dimensione reale e quella fantastica, dando impulso allo stile della narrativa latino-americana definito “realismo magico”, di cui Cien anos de soledad (1967) rappresenta un manifesto. Nel 1982 ha ricevuto il premio Nobel per la letteratura. Pubblicò La hojarasca nel 1955, analisi di un suicidio attraverso il monologo di tre testimoni che portano alla luce vicende e passioni di tutto un paese nel corso di un secolo. Seguirono Nessuno scrive al colonnelle (1961), I funerali della Mamà Grande (1962) e La mala ora (1962).

La sua opera di maggior successo, Cent’anni di solitudine, narra di un paese leggendario, Macondo, sul cui sfondo si intrecciano avvenimenti e fantasticherie, eroismi, crudeltà e solitudine. Ma ciò che più conta nel romanzo è la particolare struttura narrativa in cui la metafora e il mito acquistano valore nel quadro di una nuova visione della realtà. Dopo Racconto di un naufrago (1970), il volume di racconti La incredibile e triste storia de la candida Erendira e della sua nonna snaturata (1972) e una raccolta di articoli torna al romanzo con L’autunno del patriarca (1975), in cui rievoca, con il suo personale lirismo mitico e con accentuato surrealismo, la figura tragico-grottesca di un dittatore sudamericano. La sua produzione, quasi interamente tradotta in italiano, comprende i romanzi Cronaca di una morte annunciata (1982), L’amore ai tempi del colera (1985) e Il generale nel suo labirinto (1989), riflessione sul potere attraverso la narrazione degli ultimi giorni di vita di Simon Bolivar. Del 1992 è, invece, la raccolta di racconti Dodici racconti raminghi, a metà tra realtà e fantasia.

Dell’amore e altri demoni (1994) indaga, attraverso la storia di una ragazza internata in un convento perché ritenuta indemoniata, sull’ineluttabilità e sull’inspiegabilità del sentimento amoroso. Ha poi scritto Vivere per raccontarla (2002) e Memoria delle mie puttane tristi (2004), un romanzo che racconta la storia di un vecchio giornalista che, a novant’anni, trascorre una notte con una ragazzina illibata, rimanendone piacevolmente sconvolto al punto da incominciare, quasi, un nuovo percorso di vita.

 

Sergio Rame, Il Giornale 18/04/2014

 

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