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La Colombia che vorrei: vi presento Gòmez Dàvila

 

Fino all’età di diciott’anni ho sempre pensato che gli scrittori sudamericani fossero essenzialmente dei mongoloidi. Ma ne avevo buone ragioni: già dalla quinta elementare, ogni volta che si parlava di America Latina, l’insegnante di lettere di turno si prodigava in consigli (obblighi) di lettura che si esaurivano in Luis Sepulveda e Isabel Allende. Ovviamente erano le stesse insegnanti che mi mettevano la nota ogniqualvolta presentavo loro la pagina centrale del quaderno invece del servile e annichilente foglio protocollo, quindi posso affermare senza ombra di dubbio che Sepulveda e la Allende fossero parte del lavaggio del cervello cui eravamo sottoposti.

Poi Elogio dell’Ombra (Borges), La mala ora (Garcia Marquez) e Storie di cronopios e di famas (Cortàzar) mi hanno fatto capire che il Sudamerica andava ben oltre gli scaffali della Feltrinelli e la loro utenza miseramente naïf.

Al che, dando per scontato che per ogni Whitman c’è un Emerson, mi sono chiesto se non ci fosse stato un qualche libero pensatore a coronare questa fioritura artistica e letteraria; così, dopo brevi ricerche e lunghe attese in libreria, ho avuto accesso a quello che Álvaro Mutis definì “un territorio gelosamente custodito nella penombra”: Nicolàs Gòmez Dàvila e i suoi Escolios a un texto implícito, raccolta di pensieri pubblicati quasi clandestinamente e sconosciuti in Europa fino agli anni ’90.

Seguendo la via tracciata da Pascal e Nietzsche, Gòmez Dàvila espone il suo pensiero senza osservare un’intelaiatura sistematica nella trattazione e si spinge oltre i due predecessori utilizzando l’unica forma dell’aforisma, o, come l’autore stesso definisce i suoi, “tocchi cromatici di una composizione pointilliste”.

Effettivamente, per quanto i pensieri possano essere esposti secondo una linea logica tutt’altro che intuitiva, la percezione che ne si ha è quella di una tela in cui il dipinto emerge a poco a poco, sia da un punto di vista meramente cromatico (le tematiche), sia da un punto di vista figurativo (le critiche).

Già dopo poche pagine il lettore comprende le tonalità dominanti di quest’opera immensa sul declino della società occidentale: la dilagante tecnocrazia (“La scienza inganna in tre modi: trasformando le sue proposizioni in norme, divulgando i suoi risultati piuttosto che i suoi metodi, tacendo le sue limitazioni epistemologiche”), la secolarizzazione e l’ecumenismo della Chiesa (“La religione non è nata dall’esigenza di assicurare solidarietà sociale, come le cattedrali non sono nate per incentivare il turismo”), i marxisti (“Il militante comunista prima della sua vittoria merita rispetto. Dopo non sarà che un borghese indaffarato”), i cattocomunisti (“Il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato possibile da quando i comunisti falsificano Marx e i cattolici Cristo”), ma, soprattutto, la democrazia e la società di massa (“La scuola elementare ha ammazzato la cultura popolare, l’università sta ammazzando la cultura”).

Lo scoliaste colombiano, infatti, non sembra aver alcuna intenzione di affermare, alla guisa di un Hegel o di uno Schopenhauer, il proprio sistema, quanto, invece, di mettere in evidenza come e dove ci si stia allontanando dai principi morali insiti nel genoma occidentale e cristiano. Quindi, se è vero che un filosofo non si giudica dalle risposte che dà, ma dalle domande che pone, quest’opera (in Italia edita parzialmente da Adelphi) lo colloca ai vertici del pensiero del ventesimo secolo.

E ‘sticazzi del Nobel a Vecchioni.

Walter Quadrini

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