Disintegrazione sociale tramite concorso
Ieri, i media passavano in pompa magna la notizia del secolo: i Letta Boys trovano il rimedio ai mali della penisola, debellando tutto d’un fiato il precariato. Il tono roboante del premier in conferenza era accomagnato in sovraimpressione dalla scritta micoscoprica e ultrarapida che, in Nota Bene, inseriva ‘solo per la pubblica amministrazione, solo per qualche migliaio di fortunati, come non si sa… ma con metodi riservati’. In stile controindicazioni da prodotto farmaceutico, ma piuttosto che niente è meglio piuttosto… verrebbe da dire.
Questo bluff mediatico, se poteva con un po’ di sano ottimismo misto ad ingenuità esser salutato favorevolmente, aumenta invece lo sconforto se associato ad un’altra notizia, la quale invece è passata sotto traccia: la modifica della legge sull’accesso ai concorsi pubblici. Promossa dal ministro (!) Kyenge e in linea con la normativa europea (!!), prevede l’apertura dei posti di lavoro nella Pubblica Amministrazione anche a chi non ha cittadinanza italiana, ma semplice permesso temporaneo.
Così facendo, la Kyenge e i suoi burattinai azionano in un sol colpo due strumenti determinanti per il processo di disgregazione sociale che pare essere il fine ultimo. Fin troppo facile comprendere come – in un contesto di disoccupazione e concorsi pubblici praticamente bloccati – aumentare il numero di contendenti ad un numero sempre inferiore di posti, porti a complicare la ricerca di lavoro esasperando i conflitti sociali: inevitabile infatti che il cittadino a rischio estromissione per colpa dell’ingresso del non cittadino, vedrà in quest’ultimo una logica minaccia. Risultato non certo congeniale ai propositi di integrazione sposati dagli stessi proponenti, che in tal modo incentivano odio anzichè amore universale e volemose bene generalizzato.
A voler esser più sofisticati, poi, vi è uno svilimento del ruolo del lavoro nella pubblica amministrazione (già duramente colpito da anni di parassitismo assistenzialista soprattutto Made in Sud – ma non solo), che rispetto ad un impiego privato assume il carattere dell’esercizio per il bene della comunità. Dovendo essere la pubblica amministrazione il braccio operativo dello Stato, e lo Stato lo strumento organizzativo della comunità, è difficilmente concepibile che a gestirla sia chi non è cittadino e dunque non ha coltivato in sè la storia, la tradizione, la cultura e i valori che costituiscono il senso del dovere che dovrebbe contraddistinguere chi opera non per il solo profitto personale, ma per il buon funzionamento della comunità.
Un ragionamento simile, d’altronde, porterebbe la Kyenge all’autoeliminazione, senza neppure bisogno del televoto.
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