A lavorare vacci tu! (aboliamo l’art. 1 della Costituzione)
Questo è un vero e proprio J’accuse, a quei fessi dei nostri (anzi, vostri) padri costituenti. E non si dia la colpa al fatto che chi scrive è un diversamente padano: a muover rimostranze contro il lavoro non è l’accidia o la pigrizia (come le influenze terrone possono far ipotizzare), bensì la consapevolezza della truffa ai nostri danni. Il punto è che, chi scrive, vuole che da quella dannata Costituzione (italiana) venga cancellato quel dannato articolo (il numero 1) che dice un’a dannata bestialità: l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. “Ecco come iniziare male la costruzione di una società”, diciamo noi del Talebano, che da sempre ci opponiamo al mito del lavoro, strumento delle oligarchie e nuova forma di schiavismo capitalista. Il senso dell’eresia che portiamo avanti è presto spiegato.
Vi era una volta, nelle società “tradizionali”, il lavoro, inteso nell’accezione più ampia e nobile del termine. Quel labora che – unito ad ora – sintetizzava un approccio alla vita basato una crescita spirituale dell’uomo attraverso il sentimento, il pensiero e l’azione. Quindi, tanto le opere materiali quanto quelle “meditative” erano finalizzate al miglioramento di se’. In un simile contesto, il lavoro assume certamente un significato valoriale, non essendo altro che un modo del singolo per contribuire alla costruzione della propria comunità di appartenenza. Il mestiere di contadino e quello di soldato, così come lo spazzino e il dirigente di azienda, sono da porre esattamente sullo stesso piano e meritevoli di pari considerazione, entrambi ugualmente utili scopo.
In questo contesto il denaro assume un ruolo secondario, di riconoscimento quantitativo proporzionato al sacrificio (fisico e/o di tempo) messo in atto e delle responsabilità assunte. La ricezione del denaro diventa anzi – a volte – paradossalmente un’onta, perchè se lo sforzo compiuto è finalizzato a migliorare la condizione propria e del prossimo, il beneficio che se ne trae soddisfa già abbastanza da non considerare più necessaria la remunerazione… Si pensi ai rapporti dentro le comunità ristrette in cui tutti viviamo ogni giorno, dalla famiglia agli amici: chi ha un cugino meccanico, si vede l’auto riparata gratis (o quasi), come atto di amicizia… perchè gli amici (i parenti un pò meno) si vedono nel momento del bisogno e quando al cugino meccanico si romperà il lavandino tu – che sei idraulico – restituirai il favore, aggiustandogli il rubinetto nuovo… possibilmente senza toccargli la moglie (perchè se hai la sfortuna di essere idraulico, la prova che ti spetta è doppia).
Ma questo è il lavoro nel tempo che fu, o che avrebbe potuto essere. Un lavoro che, oggi, possiamo ritrovare tutt’al più tra le pagine dell’Utopia di Tommaso Moro. La nostra quotidianità invece ci dice tutt’altro. Ci parla di un lavoro che è un fattore produttivo e – in quanto tale – soggetto alla legge mercantile della domanda e dell’offerta. Un costo di produzione sul quale giocare per abbassare il prezzo della merce e aumentare la competitività delle imprese. Le strade delle città pullulano di sfigati che girovagano con i volti tumefatti dallo sfruttamento e gli zainetti marchiati del logo della società di consulenza per cui lavorano, o imbellettati di abiti e cravatte che strizzano il collo e ti fanno fuoriuscire gli occhi dalle orbite, come un cocainomane qualsiasi. E io, sono tra questi (sfigati, non cocainomane… almeno non per ora).
Il motivo per cui siamo spinti a vestirci tutti come dei pinguini, però, non è la crescita della nostra civiltà, ma il vile denaro. Il 90% di noi (e sono generoso) neppure sa che fine fa il lavoro di 8 ore al giorno… non ne vede il prodotto finale… non ne vede l’utilità, e spesso di utilità (sociale, intendo) proprio non ne ha. L’unica soddisfazione dunque non può che provenire dalla quantificazione economica delle ore della nostra vita buttate: lo stipendio, mezzo con il quale, dopo il 27 del mese, possiamo dar sfogo ad ogni frustrazione comprando e consumando. Così da illuderci che in fondo stiamo facendo questa fatica per qualcosa. Ed è così che ci creiamo i bisogni, o lasciamo che il sistema lo faccia per noi. Ed è così che diventiamo degli schiavi salariati e finiamo per essere oggetto di negoziazione, come un vestitino di bassa qualità venduto in spiaggia dai cinesi ambulanti.
Ma il vero problema è che anche la gratificazione del denaro ormai, con la compressione salariale sempre più portata avanti dalla crisi, sta venendo meno. Fino a qualche anno fa si accettava di farsi il mazzo per i soldi (lavoro tanto, si diceva, ma mi arricchisco e tra dieci anni me ne scappo alle Hawaii), ora anche questa motivazione è diventata chimera: l’orda di stagisti/tirocinanti & Co. che invade le società di consulenza, gli studi legali e tutti questi luoghi di sodomia guadagna il più delle volte meno di un idraulico o di un operaio. Allora perchè accettare siffatto sfruttamento, se non è compensato neppure dalla pecunia? Lo status sociale. L’ultima frontiera dell’autoerotismo, dell’uomo individualista per eccellenza. Per cui sono disposto a lavorare come uno schiavo per 12 ore al giorno, pur di poter dire alle persone che incontro che “lavoro in Ernst”, “lavoro in CBM”, lavoro qui e lavoro lì. Al punto che lo schiavo salariato del 2013 non si identifica neppure più con il lavoro che fa, ma con l’azienda per cui lavora. Ecco a voi il negro che lavora nei campi di cotone, in versione aggiornata e rivista. A lui la zappa, a voi lo zainetto firmato dal vostro capo.
Di fronte a quanto appena esposto, non vi è un’affermazione conclusiva da fare ma una domanda semplicissima da porsi: ha senso tutto ciò?
Vincenzo Sofo
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