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La solitudine del giocatore globale

di Barbara Leva

Una nuova pubblicità impazza in tv: il gioco scommessa online. Protagonista è una tizietta in pigiama che si trova, tazza del caffè in mano, in un casinò, tra la folla agghindata; la scommettitrice punta, la pallina si ferma nella casella indicata e lo slogan inneggia alla comodità di fare tanti soldi facili senza uscire di casa. Eppure, tralasciando l’inganno che fa credere che il gioco d’azzardo fa vincere invece che depauperare patrimoni, tutto lo squallore della modernità è in quel pigiama a righe.

Penso a D’Annunzio e agli esteti ottocenteschi, e ancora ai gangster degli anni ’20 e alle bettole di ogni tempo. Ai luoghi che contengono il proibito, l’illecito che è tale anche quando accettato dalla legge perché corre sul filo della morale; penso all’eccitazione di infiltrarsi, incontrare persone che intrigano perché la situazione ha un’aurea tutta sua. Sento la voglia di esserci, di sentire il profumo dei cosmetici e degli alcolici, l’aria che sa di fumo e di adrenalina, ascolto i passi frenetici che conducono lì e trascorro le ore che precedono la puntata a scegliere il vestito adatto, la pettinatura appropriata, a creare il personaggio che sfoggerò una volta varcata la soglia. E una volta lì, al tavolo del gioco, fisso gli occhi dei contendenti alla vincita finale, penso i loro pensieri, gioisco per la gioia e più spesso osservo la sconfitta. Punto e osservo puntare, perdendo, vincendo, giocando dunque, in una situazione che, senza una folla adeguatamente vestita tutta attorno a me, non avrebbe nulla di ammaliante.

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