Pecore rosse
di Barbara Leva
Non amo la scienza, il progresso tecnico. La tollero però quando permette di ritrovare disegni e dipinti sotto opere che si pensano concluse in tutto quello che ne appare, quando fornisce datazioni e quindi contesti, quando smaschera. Si è recentemente scoperto che il rosso pompeiano era un giallo. I gas sprigionati dal Vesuvio in eruzione hanno scatenato una reazione
chimica che ha alterato i pigmenti, senza intaccare le forme. I pompeiani non hanno mai visto il rosso che è stato utilizzato diciotto secoli dopo, quando il ritrovamento delle città sepolte ha dato il via a una moda revivalista tutta tesa ad imitare, a riproporre, ad essere ancora quel che non c’è più. Anzi, che non c’è mai stato. Così si è imitato, si è voluto riprodurre un qualcosa non solo di anacronistico ma di inesistente.
Tutto il mondo artistico ragiona sul passato e lo ripropone attualizzandolo. Si è visto con i templi greci e le statue ellenistiche. Bianco marmo riproposto in epoca rinascimentale e di nuovo neoclassica. Per poi scoprire che tutto era policromo, soltanto che la salsedine nel vento aveva corroso le pitture e la decadenza politica aveva portato disinteresse verso la manutenzione. Si è rivisto con il romanico, strutture con mattoni a vista proposte e riproposte negli edifici romantici. Che non tenevano conto dell’affrescatura totale in esterno ed esterno, mascherata dagli interventi ricostruttivi di epoche troppo povere per costruire dal nulla o troppo esaltate dalla creazione di stili propri per non coprire il vecchio con il nuovo.
Si vede oggi con il rosso pompeiano, colore della ricchezza estrema delle ville vesuviane, tutte concentrate sulla lussuria e il godimento materialistico e quindi prese a modello dal Neoclassicismo Imperiale. Ingannato dagli allori, dalle promesse napoleoniche e da un colore che è artificio tanto quanto la sua stessa arte.
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