SCUSATE, MA PROPRIO NON RIUSCIAMO A INDIGNARCI
È di qualche giorno fa la sentenza della Corte Suprema Usa che, ribaltando la “Roe v. Wade” ha di fatto sancito che l’aborto non è un diritto costituzionale , ragione per cui in mancanza di una legge federale i singoli Stati facenti parte dell’Unione possono decidere anche di limitarlo fortemente, cosa che sta già di fatto avvenendo.
Questa notizia ha subito scatenato la consueta scomposta isteria dei Democratici e dei vari collettivi femministi e antifa che parlano di un ritorno al Medioevo (cosa per cui personalmente metterei la firma, ma vabbè), polemiche presto riprese dalla grancassa del progressismo internazionale in generale ed italiano in particolare, con i vari leader politici della Sinistra pronti a stracciarsi le vesti. Ma questo probabilmente lo sapete già, per cui non mi dilungo.
Quello su cui però sto riflettendo in questi giorni è perché tanta isteria per un tema del genere. Le mie bacheche social si sono riempite di post carichi di odio e livore da parte di tante ragazze e non solo che, in altre circostanze, avevo sempre ritenuto persone molto ragionevoli e apprezzabili, ma che all’improvviso sentivano il bisogno di comunicare al mondo il proprio odio e disprezzo verso ogni maschio bianco etero contrario all’aborto, categorie in cui mi ritrovo.
Io sono sempre stato abituato a vedere l’aborto come una tragedia, ovvero come un male a cui la madre ricorre per evitarne un altro che lei ritiene peggiore. Penso alle ragazzine rimaste incinte e che non hanno possibilità di mantenere il figlio oppure a madri in gravi situazioni di difficoltà economica o lavorativa, o infine a casi di violenze o di gravidanze indesiderate.
In altre parole, l’aborto era una soluzione estrema ed eticamente sbagliata a un problema.
Mi sto rendendo conto invece che nella narrativa progressista, diventata ormai preponderante, l’aborto è completamente normalizzato, è un diritto e in quanto tale non soggetto a critica o trattazione.
Tra le azioni che una donna può compiere c’è l’abortire, percepito come una attività assolutamente normale e priva di qualsiasi implicazione etica, non troppo diversa dal leggere un libro o bere un bicchiere d’acqua. Ogni donna, di conseguenza, si troverebbe così privata di un’azione che è un suo diritto intrinseco e innegabile.
Sotto questo punto di vista non ha neanche senso che lo Stato vada a intervenire sulle possibili cause economiche che possono portare all’aborto, ad esempio facilitando adozioni o offrendo sostegno economico alle madri in difficoltà, perché quello che conta non è risolvere i possibili problemi che possono causare l’interruzione di gravidanza, ma ribadire in maniera indiscutibile e assoluta l’aborto come atto di scelta e di libertà della donna.
In un certo senso, l’aborto in sé assume quasi una connotazione positiva, una rivendicazione di libertà sintetizzata nel motto “my body, my choice”.
Ora, qui e altrove moltissimi validi esperti di bioetica e di diritto possono spiegare meglio di me le ragioni per cui questo ragionamento non regge, ma io sono un povero uomo culturalmente fermo alla Controriforma, che nulla capisce di Scienza e pochissimo di Diritto, per cui non mi addentro in queste questioni e provo invece a vedere la questione da un punto di vista leggermente diverso.
Essendo io fondamentalmente un uomo del passato, l’immagine che mi è venuta in mente è la raffigurazione medievale del peccatore, ovvero come rendere artisticamente un concetto teologico. Noi potremmo pensare a un uomo raffigurato mentre è dedito al divertimento sfrenato o qualcosa di simile, invece, il peccatore è raffigurato come un uomo ricurvo su se stesso, con lo sguardo rivolto verso il suo stesso corpo.
Il peccatore è principalmente colui che ha come unico obiettivo l’affermazione di se stesso, la sua completa realizzazione, vedendo tutti gli altri come degli ostacoli che si frappongono tra sé e la propria libertà, l’esercizio del proprio diritto. In altre parole, il peccato è l’incapacità di focalizzarsi sugli altri e di avere come punti di riferimento la relazione, cioè quel qualcosa che lega tra loro due e più individui per arrivare a percepirsi non come soggetti ma come punto e somma di diverse relazioni che costituiscono la comunità.
In questa ottica, nella società moderna ognuno è un singolo e non esiste più spazio per la relazione ma ci si focalizza unicamente sull’affermazione di se stessi, percependo come un pericolo e distruggendo tutto ciò che è visto come un potenziale limite al mio bisogno.
Esemplificando sull’aborto, il feto non è più considerato come un soggetto, frutto di una relazione tra due individui e a sua volta dotato di un’individualità propria (per quanto possa essere passivo e dipendente, è sempre un ente diverso dalla madre), ma un qualcosa che limita la tua libertà e le tue possibilità, complice una società capitalista dove il fine ultimo è super performare eliminando qualsiasi cosa che può compromettere la tua produttività, si veda infatti la prontezza con cui le multinazionali si sono dette pronte a finanziare i viaggi per abortire delle proprie dipendenti.
L’ultimo gradino è quello sovraindividuale, che vede il bambino non come il prodotto dei genitori ma che si inserisce in una dimensione maggiore, quella della comunità che per sopravvivere ha bisogno di riprodursi e di tramandare le proprie tradizioni alle nuove generazioni. In quest’ottica si sviluppa anche la cerimonia del Battesimo ai bambini, in cui i genitori presentano il bambino a Dio ma anche alla propria comunità, e si impegnano davanti a tutti ad educare il figlio secondo le norme religiose che a loro volta hanno ricevuto. Il significato profondo è proprio questo: una vita nascente non appartiene né alla sola madre né ai genitori, ma è qualcosa di immensamente più grande e complesso.
Una complessità che si sta sempre più smarrendo, in una società che è ormai ripiegata su se stessa e che si concepisce soltanto attraverso la dinamiche della propria autoaffermazione a spese altrui, chiamando tutto ciò, un po’ ipocritamente, diritto.
Andrea Campiglio
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