MORTO UN CALIFFO SE NE FA UN ALTRO
Nell’ultimo mese il Califfato ha subito due grandi sconfitte: il tentato attacco al carcere di Hasakah, allo scopo di liberare i guerriglieri reclusi che si è concluso con una disfatta dopo cinque giorni e il 3 febbraio Al-Hashini al-Qurashi, succeduto a Abu Bakr al-Baghdadi, si è suicidato come il predecessore, per non essere catturato dai nemici.
Bisogna menzionare inoltre il ruolo di Al Qaeda che seppur “timidamente” sta godendo di diversi successi: in Afghanistan sostiene i talebani e si impegna a combattere le cellule affiliate all’IS presenti nella Provincia del Korasan e in Yemen continua ad essere fortemente determinante grazie all’intervento di Aqpa (Al Qaeda nella Penisola Arabica).
La prioritaria domanda da porsi è chi sarà il successore alla guida del Califfato dato che le “regole” impongono che il posto non sia “vacante” per più di quattro giorni. In realtà al momento non conviene all’Isis conferire ufficialmente il “mandato” perché ciò potrebbe suscitare nuove indagini di intelligence da parte dei nemici. Attualmente le cellule terroristiche lavorano sotto traccia nelle poche zone rimaste complici a cavallo tra Siria ed Iraq (presenze sono registrate anche nel Sinai): nella loro prospettiva converrebbe puntare prima ad una nuova espansione territoriale e solo successivamente palesarne l’assetto amministrativo.
Fonti non ufficiali stimano che il Califfato sia ancora in possesso di ingenti somme di denaro (tra i 25 e 50 milioni di dollari) e, se fosse privilegiata la scelta celata di un leader, l’organizzazione rischierebbe di non poter contare su una figura forte capace di convogliare gli sforzi dei numerosi “simpatizzanti”. È infatti innegabile che il Sahel sia vittima di grandissima incertezza nella quale è ben riuscita a stagliarsi la componente terroristica.
Dal 2007 in poi i miliziani hanno assunto un potere “geopolitico” nella mappa di influenze del Sahel. Inizialmente le “risorse” presenti in questa zona potevano essere annoverate come quelle che prestavano le proprie “competenze” per conto di organizzazioni estere, ma nel tempo tale fenomeno è diventato fluido fino a poter contare su un efficiente apparato organizzativo – logistico con autonomi interessi economici.
Indubbiamente le cellule del Sahel sono in maggior numero di ispirazione qaedista, ma recentemente lo Stato Islamico sta cercando di conquistarsi uno spazio nella zona dell’Africa occidentale. Alla luce di quanto descritto è prioritario progettare azioni di natura economica, capaci di intervenire sulle realtà produttive che, se abbandonate, finirebbero (o sono già finite) nell’orbita terroristica.
Sta assumendo sempre più importanza il fenomeno del terrorismo islamico nelle Filippine dove una cellula sta acquisendo potere in maniera costante dopo l’esordio nel 2017.
Dovendo quindi ipotizzare possibili scenari futuri, possiamo tranquillamente immaginare che il Califfato saprà riorganizzarsi anche dopo le importanti sconfitte. Bisogna tener presente che fonti non autorizzate stimano siano detenuti in carceri governative siriane circa 12 mila combattenti, mentre i familiari di essi (circa 60 mila persone) sarebbero in custodia delle forze del PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan).
La reale incognita sarà proprio la collaborazione curda: da un lato è innegabile che siano “disponibili” a “custodire” i personaggi pericolosi e i foreign fighters che i paesi d’origine rifiutano di riaccogliere perché questo ruolo garantisce loro di allontanare il timore di essere attaccati dalla Turchia ma, allo stesso tempo, il foraggiamento economico e militare degli Stati Uniti potrebbe non bastare. A conferma di ciò, gli Usa hanno etichettato il PKK come gruppo terroristico e la scelta è sicuramente finalizzata al fatto di non inimicarsi la Turchia (membro della Nato). Il doppio titolo (custodi – terroristi) riservato ai curdi potrebbe essere una scelta strategica fallimentare sul lungo termine nel caso in cui le istanze del Kurdistan indipendente si facessero più pressanti.
Arianne Ghersi
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