IL FUTURO DEL LAVORO PUO’ ESSERE SOLO COMUNITARISTA
Domani sarà tragedia, domani sarà insicurezza, domani sarà povertà. Sembra proprio che non si possa fuggire da questa previsione: il lavoro è destinato a diminuire per fattori molteplici e tutti sono concordi senza considerare quanto la situazione si è aggravata e velocizzata a causa dalla pandemia. L’aumento della popolazione come l’utilizzo delle macchine per sostituire le persone e aumentare i profitti contribuiranno a dare una svolta epocale a tutto ciò che chiamiamo lavoro retribuito: ovvero quella attività materiale o intellettuale per mezzo della quale si producono beni o servizi, regolamentata legislativamente ed esplicata in cambio di una retribuzione. Da alcuni anni tutte le mansioni noiose, ripetitive e pericolose, vengono pian piano gestite dalle macchine. Se da un lato vi è una positività, poiché si diminuisce il rischio di incidenti alle persone sul lavoro dall’altro lato va osservato che il 70% dei lavoratori resta a fare lavori di tipo intellettuale (Indagine Caritas sull’aumento della povertà in Italia), creativo, di gestione di informazioni. Ma in molti settori queste operazioni vanno a diminuire a causa della iper-tecnologizzazione (Domenico De Masi, Ozio creativo edito da BUR).
La società e il lavoro stanno rapidamente mutando e le aziende non si modellano in rapporto ai cambiamenti ma mirano solo ad aumentare il proprio profitto non capendo quanto è già accaduto e si intensificherà: il crollo dei consumi. L’unica strada percorribile non è quella dello sfruttamento di manodopera meno costosa, la quale giunge da paesi meno sviluppati: questa non è la soluzione. Se si procede verso tale indirizzo, si aggraveranno le problematiche facendo aumentare in maniera drastica la povertà. Solo in Italia, nell’ultimo decennio, siamo passati da 1,8 milioni di poveri a oltre 4 milioni. L’aumento di oltre 2,2 milioni di poveri, ha comportato una diminuzione dei consumatori e di conseguenza meno posti di lavoro e più aziende chiuse. Tutto questo prima dell’arrivo del coronavirus e delle conseguenze sul mondo del lavoro che presto dovremo affrontare.
Quale, dunque, una possibile soluzione? Secondo alcuni studiosi, rivoluzionare il mondo del lavoro tramite un nuovo patto sociale tra Stato, aziende e comunità, porterebbe ad una diminuzione di ore lavorative a parità di stipendio. Questa soluzione contribuirebbe ad un aumento delle persone impiegate e – utilizzando il tele-lavoro – diminuirebbe i costi per le aziende e lo spreco del tempo per gli spostamenti delle persone.
Come abbiamo potuto constatare nell’ultimo periodo molte delle attività di oggi possono essere svolte in ogni luogo e in qualsiasi orario; il lavoro intellettuale non dipende dal tempo e dal luogo, ma da obiettivi e cooperazione tra soggetti. Destrutturando il tempo e lo spazio è possibile creare una nuova modalità lavorativa in relazione agli obiettivi, i quali contribuiscono a diminuire le diverse problematiche per le aziende e per le società. Tra questi emergono l’inquinamento, i costi aziendali, il risparmio energetico, gli incidenti sul lavoro e gli incidenti stradali. Questa tipologia risolutiva, contribuirebbe ad un aumento dei vantaggi di tipo personale, come anche nell’ambito sociale: fattori come il tempo libero, la gestione e soluzione di problematiche familiari, i costi sociali per inquinamento, il risparmio economico per le aziende, il rispetto della famiglia e il reddito per le molteplici persone.
La diminuzione delle ore di lavoro, unite all’utilizzo del tele-lavoro, garantirebbero alla società post moderna consumi e profitti. In una fase di transizione verso un nuovo modello economico e una società basata sul consumo collaborativo, ecco la soluzione basata su un’impostazione comunitarista di transizione. La nuova economia del futuro si dovrà basare sulla condivisione dei beni: gli esempi più noti sono il car-sharing come il bike-sharing che sono il passaggio verso una economia collaborativa, dove le persone – le quali condividono le competenze e i capitali – sono in grado di generare ricchezza grazie ai mestieri, alle conoscenze e alle iniziative specifiche.
La crisi è forte e aumenta, le famiglie sono spaventate per il futuro dei figli che, come ci dicono i dati, sono “bloccati” nelle casa familiare, non possono crearsi un futuro, non hanno davanti a loro molte possibilità e oggi non vi è più nemmeno la soluzione della fuga in altro paese. Oltre alla crisi economica e del lavoro vi è sempre un ulteriore problema che è il continuo aumento: l’età per andare in pensione. Ma siamo sicuri che il problema del pensionamento dei lavoratori vada concepito solo in relazione all’età e ai versamenti? Pensiamo a un diverso schema e proviamo a pensare a un patto tra stato, aziende e lavoratori. Poniamo la situazione di una persona in età pensionamento e verifichiamo la possibilità di una diversa situazione per cui il lavoratore possa scegliere di restare in azienda a metà orario con la stessa retribuzione che quindi sarebbe certamente maggiore dell’assegno pensionistico. In compenso l’azienda non andrebbe a pagare i contributi del lavoratore non andato in pensione e con i contributi non versati si avrebbe una disponibilità economica per assumere un giovane da affiancare al lavoratore non andato in pensione. I Vantaggi sarebbero molteplici e per tutti. Da una parte l’INPS risparmierebbe sulle persone che andrebbero in pensione, il lavoratore più anziano resterebbe attivo a livello lavorativo e produttivo ricevendo una somma maggiore di quanto riceverebbe dall’assegno della pensione. L’azienda avrebbe un lavoratore esperto che potrebbe garantire l’insegnamento a un lavoratore giovane senza perdita di esperienza e garantendo alla stessa la produttività. Grazie a questa semplice soluzione si darebbe un forte colpo alla disoccupazione giovanile senza pesare sulle aziende, molti lavoratori non andrebbero in pensione e lo stato non avrebbe il problema di dovere aumentare gli anni per il pensionamento creando una riforma stabile che prenda in considerazione anche le nuove generazioni.
Alcuni studiosi parlano di un nuovo tipo di capitalismo, dove la proprietà tradizionale dei grandi marchi si unirebbe ad un sistema di accesso su base paritaria. In realtà non si tratta di una nuova forma di capitalismo, ma di un sistema cooperativo in cui il profitto non è il fine dell’individuo, il quale ha sempre come obbiettivo la tutela dell’ambiente, il consumo consapevole, il risparmio energetico, l’eliminazione dello spreco, la dispensa collettiva e tutte quelle forme in cui il denaro non è il principale mezzo di scambio (Giannino Malossi, La creatività nelle professioni della moda).
Il futuro può essere dominato dall’uomo e la cooperazione tramite diverse competenze potrà contribuire a sviluppare un nuovo modello di economia di tipo comunitarista.
Fabrizio Fratus per Il Cittadino Di Monza e Brianza
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