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ALL’ORLO DELLA STORIA

Soggiorniamo, tutti noi, sul limitare di un baratro. Guardiamo, con gli occhi fissi, un abisso, che ricambia con freddezza il nostro sguardo. «Chi lotta con i mostri – canta in Al di là del bene e del male il profeta del nichilismo, lo scriba del caos Nietzsche – deve guardarsi dal non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te». Al tramonto dell’Occidente di spengleriana memoria, in quello Zwischenreich che gli autori della Rivoluzione Conservatrice hanno sapientemente avvertito e delineato, sulla base del monito nietzscheano, non resta che muovere i passi un po’ più oltre. Lungo i terreni dissestati e caotici di un mondo liquido, ormai gassoso, in cui tutti i segnavia sono sempre più confusi. E andare oltre, oltre ancora. Ultra, trans, oltre, über, post: non è un caso che questi prefissi abbiano raggiunto nel Novecento filosofico – e culturale tutto – un impiego serrato, a tratti iperbolico e parossistico. Il peana del divenire e la volontà di potenza s’imprimono anche nei morfemi della lingua.Così, ci si chiede, è possibile andare persino oltre la storia, oltre la sua stessa fine? È questa la domanda tremenda che assilla William Irwin Thompson, brillante studioso statunitense, classe 1938 (venuto a mancare recentemente, l’8 novembre 2020), il quale, da figlio delle propaggini più estreme, escatologiche dell’Europa, coglie con travaglio tutta la tragedia impressa nello Zeitgeist a lui coevo. At the Edge of History esce negli States nel 1971. Il suo giovane autore, dopo gli studi sulla filosofia di Alfred North Whitehead e la Easter Rising, la rivolta irlandese di Pasqua del 1916, approda a temi di storia delle idee, filosofia della storia e spiritualità – introducendo le questioni che, nella sua riflessione successiva e matura, saranno sempre più segnate dal riferimento a chiavi interpretative di tipo simbolico, religioso ed esoterico.

È passato quasi mezzo secolo, eppure il saggio di Thompson è ancora di un’attualità disarmante per la sua decostruzione della Zivilisation moderna e per il suo sguardo profetico – tale in quanto foriero di presagi ormai inveratisi e, al contempo, di sguardi su un avvenire ancora assente, ma che tuttora ci interpella con la forza della sua chiamata à rebours dal futuro. E anche in virtù delle acute, ancorché spesso velate e frammentarie, proposte costruttive che attraversano la tessitura della sua brillante e scanzonata prosa. La sua è una cultura vasta, che attinge alle più diverse fonti, al di là di ogni steccato disciplinare e ideologico. Nelle sterminate pubblicazioni di Thompson e nella sua esperienza biografica – segnata da una carriera universitaria straordinariamente rapida e da un altrettanto subitaneo ritiro dal mondo accademico – c’è posto per la letteratura di Joyce, le religioni antiche, l’esoterismo moderno, lo yoga, le riflessioni sull’ambiente e la biologia, la letteratura fantastica, la geometria sacra, la figura di Sri Aurobindo, la teologia di Teilhard de Chardin, l’Ipotesi Gaia di James Lovelock, l’amicizia con David Spangler (una delle figure chiave del movimento New Age), l’esercizio personale e originale della scrittura poetica, l’organizzazione della Lindisfarne Association, un think tank che dal 1972 al 2012 si è occupato di coordinare la ricerca e lo scambio fra intellettuali interessati allo studio e alla promozione di una nuova cultura planetaria.

Thompson, è bene precisarlo, resta comunque uno statunitense. Antimoderno, severo critico dell’utopismo liberale e progressista, l’autore elabora la propria riflessione da un osservatorio privilegiato, dimorando egli, in senso biografico e spirituale, in una nazione giovane sul piano della storia mondiale, su cui non grava il passato – eredità mirabile e al contempo macigno opprimente – della Grande Europa. La sua è una critica che non è toccata dalla Finis Austriae, forse la vampata di Bellezza più potente della modernità, quella che solo è capace di eruttare un vulcano tragicamente imploso. Thompson guarda così alla crisi dell’Occidente in una prospettiva altra, eppure complementare, rispetto a quella consacrata dalla tradizione antimoderna europea: meno metafisica, più sociologicamente accurata; meno salda su un piano speculativo, più pragmatica e attenta all’esperienza individuale concreta; poco organica nella ricostruzione globale e genealogica dello status quo, molto acuta nel riconoscimento dell’avvenire negli interstizi del presente.Al centro del ciclone del Moderno, Thompson non rifiuta nulla, senza indulgere in qualsivoglia –ismo od ortodossia: tutto sperimenta, tutto osserva incuriosito e affascinato, tutto (molto, perlomeno) critica e decostruisce, animato da una occidentalissima curiositas. Il saggio di questo studioso, dotato «della mente di uno scoliasta e dell’immaginazione di un William Blake» (l’elogio è di Christopher Lehmann-Haupt) è dunque un mosaico attorno alla coscienza storica occidentale e alla consapevolezza del destino, in essa inscritto, del Grande Incontro con quanto si staglia al di là della storia, al muro del tempo, per dirla con Ernst Jünger. Un invito a ripensare i fondamenti stessi della modernità. In questa metanoia – vero “rivolgimento di cuore” – Thompson si fa carico di un compito arduo, aperto all’azzardo e all’errore (tipico dell’errare, d’altronde): riconoscere nel suo presente le costanti del passato e i germi del futuro. Al centro di una intellettuale gigantomachia individua così numerosi snodi che ipotizza possano inverarsi nel futuro post-industriale e post-nichilista. E, al contempo, invita il lettore a rimanere ben saldo nella sua posizione, nel parossismo della contraddizione moderna, vivendola pienamente, sperimentando la crisi per muoversi al di là di essa. Una postura tanto coraggiosa quanto (in)attuale.

Risultato immagini per wi thompson

W.I. Thompson, All’orlo della storia. Per una critica della tecnocrazia, Iduna, Milano 2021, 332 pp., € 24,00
Luca Siniscalco

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