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Cesare Battisti ed il futile

 

 

Quando Cesare Battisti attraversa, scortato dalle guardie, il corso che conduce al Castello del Buon Consiglio dove il patibolo è già stato allestito ha il passo cadenzato dell’uomo consapevole del proprio destino. Sulla porta dell’osteria dei Tre Garofani (se non m’inganno di memoria) la più giovane figlia del proprietario, già anch’ella vedetta e staffetta di incontri e missive segrete abbassa il capo e piange la sua lacrima di dolore.

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Se ne ricorderà anni e anni dopo, in una splendida intervista di Arrigo Petacco filmata da un giovane cameraman, Ermanno Olmi, nel bianco e nero radente dell’anima nuda; per dire della grandezza della RAI che fu. Il grande irredentista, soldato, giornalista e politico, Cesare Battisti viene impiccato e quella foto, con il boia che sorride con scherno, oggi campeggia in tutti i libri di storia patria. Credo che il padre del Battisti coevo nostro, il terrorista arrestato ier l’altro in Sud America, abbia pensato, battezzando il figlio, a quel nome altisonante, a quel Cesare dedicatosi alla libertà, ed il prezzo è sempre quello ed in qualunque tempo: la vita. Un viatico in quel nome e cognome, insomma. Ne crebbe un Erostrato, ad imitazione di quel pastore che incendiò,senza motivo se non la futilità della vanagloria, il tempio di Artemide, uno tre le sette meraviglie del mondo classico. E, se la vita è un tempio, e lo è, uccidere per uccidere non porta che al doloroso lutto ed al conseguente rimorso, se un uomo è un uomo. E ricordando quegli anni, gli anni della mia gioventù, i Settanta ed i primi Ottanta, gli Anni di Piombo, secondo la virgolettatura del grandissimo Indro Montanelli, il Cesare Battisti odierno, rinchiuso nel carcere di Oristano a scontare i quattro ergastoli che deve alla legge, e vedendolo, ormai vecchio e dall’incedere supino, un senso di sconforto mi avvolge. Un’altra vita perduta e nel perdere la sua vita egli ha trascinato seco anche l’indirizzo metafisico che gli donò il padre suo con l’acqua battesimale. E con lui, dentro quelle quattro mura che echeggiano nel torrido silenzio, quegli anni in cui la malvagità ideologica imperava. Non era soltanto il comunismo, mi verrebbe da scrivere che non era per nulla il comunismo se non nella lettura infantile dell’estremismo. E vale, in modo speculare, per la cosiddetta destra. La lezione di Vasilij Grossman in “Vita e destino”, quando nel carcere s’incontrano il vecchio rivoluzionario d’ottobre, condannato dallo stalinismo, ed il neo direttore, un colonnello delle SS, e, in una conversazione di razionale hegelismo, l’ufficiale esordirà dicendo: “Fratello, noi siamo uguali, se vincete voi io vinco con voi, se perdiamo noi, voi vincete anche per noi”, la lezione di Grossman, scrivo, non è ancora stata interiorizzata né spiritualizzata né politicamente accettata, compresa, condivisa, nella sua incontestabile verità: il materialismo. Il ridurre l’uomo, il tempio sacro, a materia per un esperimento di ingegneria sociale.

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“Ma l’uomo è questa roba qui, un vecchio albero torto che mai sarà diritto per sua natura”, così il Kant nella sua profonda sapienza razionale dichiarata. Non mi viene dunque da gioire nel vedere un uomo né al patibolo né al gabbio perenne, per quanto la legge sia necessaria. La si accetta senza gioire e con un sentimento, per chiunque sia uomo, di personale, per quanto irresponsabile nei fatti, sconfitta. Inoltre, e mi avvio alla conclusione, sarebbe l’ora di tentare un percorso di comprensione di quegli anni archiviati in quello che allora si chiamò “riflusso” nei giubbotti dei paninari prodromi dell’attuale umana ignoranza soprattutto espressa dalla cifra linguistica, ah lo stile!, “lo stile è tutto”, così Gustave Flaubert, con la quale gli uomini politici si sono espressi sull’arresto. Un uomo, operaio o ministro, se uomo, possiede, in misura di espressione, un gesto, un silenzio, una parola, il senso di quella pietas, non la si traduca nel banalmente pietà pelosa, ma di nuda pietà nel comprendere tutte quelle vite perdute, buttate, saccheggiate. E domandarsi perché? Ecco, sarebbe l’ora di domandarsi perché. Quando inizieremo farlo, partendo dalla domanda e non dalle risposte di un comodo più o meno pre-scritto, sapremo iniziare a comprendere il perché della nostra società sfilacciata e disperata nel futile attualismo.

Di Emanuele Torreggiani

 

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