Faccia di bronzo: noi ce l’abbiamo (messa). Voi?
O di come ogni proposta di pubblica utilità venga archiviata dall'ozioso conservatorismo italiota del posto fisso
Le esposizioni universali sono sempre state ottime occasioni per mostrare al mondo le eccellenze del paese ospitante la manifestazione. Un modo per fare il punto della situazione sul momento storico, unendo l’avanguardia della tecnica, ora nettamente orientata alla biosostenibilità, e le tracce più luminose di un vissuto culturale che si svolge con continuità dal passato al presente andando a formare la nostra identità. Quindi, le opere del passato devono essere valorizzate anche in esposizioni maggiormente orientate all’espressione del presente, come quella universale.
La proposta di Vittorio Sgarbi, orientata all’esposizione dei famosi Bronzi di Riace all’interno dell’Expo meneghino, ha sollevato numerose polemiche e la negazione del prestito da parte del Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, il che dimostra la problematicità della questione che Il Talebano rimarca con il simbolico tentato furto delle due sculture.
Si è parlato molto di cifre e di visibilità, oltre ai rischi per l’incolumità delle opere a causa del trasporto, quindi sempre di questioni pratiche. Il dato di fatto, chiaro e limpido, è che le opere d’arte sono sempre state trasporate da un luogo ad un’altro in occasione di mostre, comprese le opere più famose e delicate, senza particolari rischi di danneggiamento (gli stessi Bronzi sono stati trasportati a Firenze e a Roma prima dell’attuale collocazione). La presenza dei Bronzi di Riace a Milano durante l’Expo sarebbe stata una buona occasione per fare vedere le opere ad un pubblico vastissimo, ispirando in alcuni di essi l’idea di tornare in Italia per scoprirne il vasto patrimonio culturale, con un notevole ritorno economico e pubblicitario. Inoltre, c’è da dire che i musei non dovrebbero essere prigioni, e le opere del passato non sono “corpi morti”, ma devono poter essere sempre ammirate e interpretate con gli occhi del presente.
Ora però credo sia meglio occuparsi del valore simbolico che avrebbe potuto avere l’esposizione delle due sculture a Milano, a mio parere ancor più importante dei calcoli di interesse economico e di fattibilità pratica. Il valore dell’arte sta nell’esprimere nello stesso tempo una dimensione assoluta ed una dimensione relativa alla cultura dove essa si sviluppa. L’arte greca, della quale le due sculture sono un’importante testimonianza risalente al V secolo a.C., esprime bene l’armonizzazione tra oggettività e soggettività, archetipi e specificità locali, alla quale si ispirò anche il decentramento amministrativo delle polis. Attraverso la Magna Grecia e la successiva espansione dell’Impero Romano, la concezione delle pluralità culturali divenne patrimonio comune di un’Europa che oggi rinnega se stessa per omologarsi all’America e alle prassi coercitive dell’economia globale. I mediterranei bronzi sono poco congruenti con il paesaggio padano e c’è da dire anche che nell’epoca di produzione delle due sculture Milano era stata da poco fondata – e dedicata alla divinità celtica Belisama da una tribù di Galli provenienti dall’odierna Francia – ma la loro esposizione durante l’Expo sarebbe stata un segnale di coscienza storica europea, che proprio a Milano vede l’incontro della cultura celtica e di quella mediterranea, entrambe indoeuropee, e di rinnovata aspirazione ad un equilibrio tra fiducia nella ragione (senso della misura, metafisica del limite) e vitalità immaginativa (espressione della complessità della psiche nell’arte, nei miti e nelle tradizioni), equilibrio formatosi nell’antica cultura greca e che può essere un ottimo spunto per ripensare l’Europa partendo da Milano.
Andrea Lacarpia
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