L’unica speranza per il Medio Oriente è la resurrezione di Arafat
E se Hamas fosse uno strumento per impedire la libertà del popolo palestinese?
In questo momento dove tutti stanno dicendo la propria sulla ripresa del conflitto israelo-palestinese, cerchiamo nel nostro piccolo di uscire dalla mentalità tipica del tifoso medio (e virtuale…) dei social, sempre pronto a sbraitare slogan estremistici comodamente seduto su confortevoli poltrone e con l’aria condizionata che refrigera l’ambiente circostante, e affrontiamo più seriamente la questione.
Per prima cosa, usciamo da un ridicolo equivoco. Parteggiare per uno dei due contendenti non significa certo porsi a fianco del Bene o del Male, secondo una riduzionistica visione della realtà, che non a caso va per la maggiore negli States. Come in tutte le guerre, entrambi i contendenti si sono macchiati di atrocità di vario genere, ma questo fa parte, volenti o nolenti, della natura umana che è intrinsecamente violenta e aggressiva, nonostante il parere contrario dei benpensanti.
Esclusa perciò questa visione moralistica, in base a quali criteri dovremmo stabilire a chi va il nostro favore? Essendo noi figli (anzi, ormai nipoti) di una cultura politica che pone alla base del proprio pensiero la tutela dell’identità di tutti i popoli, secondo una visione differenzialista esattamente opposta a quella del mondialismo oggi imperante, la nostra simpatia, o meglio ancora empatia, non può che andare al popolo palestinese. Martoriato come pochi popoli nella storia umana ma mai domo e sempre pronto a combattere per la tutela della propria identità, pur in una situazione di imbarazzante inferiorità militare nei confronti del nemico. Bastano queste poche parole per spiegare come la nostra scelta di campo non possa che essere questa, senza remore di sorta.
Una volta chiarita, anzi ribadita, questa posizione, dobbiamo affrontare un’altra domanda, forse ancor più decisiva della prima: come porre fine al conflitto, escludendo a priori una visione nichilistica per cui l’importante sia solo combattere, con relative morti e distruzioni, senza porsi obiettivi finali? Ovviamente le soluzioni non possono che essere solamente due: o la vittoria militare di uno dei due contendenti oppure un accordo tra le parti. Nel primo caso solamente un pazzo, o forse dovremmo scrivere un idiota, può pensare che il popolo palestinese possa vincere questo conflitto contro uno dei più forti eserciti del mondo. Allora non rimanere che l’opzione dell’accordo.
Ma gli attuali attori presenti sullo scenario politico sono in grado, almeno potenzialmente, di giungere a questa conclusione? Noi, in tutta onestà, nutriamo dei forti dubbi nei confronti di Hamas. Il movimento di resistenza islamica ha sicuramente avuto un grosso pregio negli ultimi decenni. Mentre le varie fazioni dell’Olp si occupavano unicamente di affari economici e corruttele varie, Hamas creava una importante rete di assistenza sociale nei Territori Occupati, particolarmente nella striscia di Gaza. Da questa lunga e quotidiana attività sociale, il movimento islamico ha poi ottenuto i successi elettorali degli ultimi anni (esattamente come Alba Dorata in Grecia), scalzando di fatto Al Fatah dal ruolo guida che ha ricoperto per lunghissimo tempo.
Bisogna però non tacere l’altro aspetto di Hamas, quello che secondo noi, nei fatti, nuoce alla causa palestinese. Mentre l’Olp era un movimento dichiaratamente laico che poneva al centro della propria lotta politica l’identità nazionale palestinese, Hamas al contrario è un movimento islamico con una forte connotazione religiosa. Non a caso, subito dopo la prima vittoria elettorale, i militanti di Hamas hanno tolto le bandiere palestinesi dall’ingresso del Parlamento, sostituendole con quelle verdi, colore sacro per l’Islam, del proprio movimento, gesto sicuramente dalla forte connotazione simbolica. A questo estremismo religioso va aggiunto il punto più controverso, ufficialmente inserito nello Statuto del movimento: la cancellazione dello Stato di Israele.
Con questi presupposti, non possiamo che nutrire un forte pessimismo sulla possibilità di una risoluzione pacifica del conflitto. In molti penseranno che la scelte prese da Arafat negli ultimi anni di vita non abbiano portato a granché, e in parte hanno ragione. Ma come insegnano le biografie di tutti i rivoluzionari di ogni colore del Novecento, ciò che caratterizza un’autentica politica rivoluzionaria è proprio un sano realismo, che comprenda quando è necessario accelerare i tempi e quando è più conveniente frenare. Proprio queste considerazioni hanno sostenuto le ultime decisioni politiche di Yasser Arafat, il cui ricordo è ancora oggi ben vivo nel cuore della maggioranza del popolo palestinese. Auspichiamo perciò che in futuro, all’interno di Al Fatah, cresca una nuova classe dirigente, capace di chiudere coi lati oscuri degli ultimi decenni, riprendendo in mano con vigore la fiaccola della lotta di liberazione palestinese. Altre alternative, secondo noi, non ce ne sono.
Alessandro Cavallini
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