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UNO SGUARDO SU EVOLA. INTERVISTA A GIOVANNI SESSA

 

Sono passati quaranta anni dalla prima pubblicazione in italiano del testo di Alain De Benoist “Come si può essere pagani?”; De Benoist,scrittore, filosofo e giornalista francese, è un egregio di vero spessore. Fu fondatore della Nouvelle Droite (Nuova Destra), movimento culturale di indubbio valore, con il quale ha animano menti e cuori di tanti intellettuali, riuscendo a dare importanti impulsi alla Destra continentale.

La più recente edizione di “Come si può essere pagani?”, edita nel 2011 dalla casa editrice “Settimo Sigillo”, porta una notevole introduzione a firma di Giovanni Sessa, uomo e mente molto brillante. Il testo “Come si può essere pagani?”, ritengo sia una pietra miliare dell’identitarismo: esso solleva importanti riflessioni storico-religiose e filosofiche. Lo mette in risalto Giovanni Sessa che, nelle pagine della sua introduzione al testo, riporta riferimenti a Giorgio Colli e Julius Evola che riscoprono una visione del mondo precristiana e Sapienziale spesso ingiustamente mal compresa.

Tale visione, è veicolare a nuove sintesi in alternativa post-liberale, radicandosi in una visione esistenziale e Tradizionale dell’esistenza. Argomento, questo, molto interessante che non potevamo non provare a sviluppare partendo da un confronto proprio con Giovanni Sessa. L’intenzione è affrontare la dimensione più profonda della riflessione metapolitica: abbiamo deciso di partire dagli studi evoliani; quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla morte di Evola.

Cosa affermerebbe oggi Julius Evola nel Terzo Millennio sulla base dell’evoluzione degli studi e degli scenari della postmodernità?

Giovanni, nella precedente intervista in cui ci siamo confrontati, Lei afferma che gli studi evoliani devono tenersi a distanza da due tendenze opposte ma segretamente complementari: la denigrazione e l’apologia acritica. Merito suo è stato, senza dubbio, quello di aver approfondito l’aspetto filosofico evoliano mettendolo in relazione con vari autori: ha saputo enfatizzare il ruolo della filosofia come esperienza di riconnessione verso l’Origine. Vuole spiegare ai nostri lettori questo concetto?

Innanzitutto soffermiamoci, brevemente, sul tema dell’origine. Scrivo origine al minuscolo in quanto, nella mia prospettiva, essa non rinvia ad alcuna dimensione sovrannaturale e santa in quanto l’origine si dà negli enti, nella physis, è infranaturale. Nel mondo classico gli uomini avevano contezza della sacralità, meravigliante e terrifica allo stesso tempo, del cosmo. Le “religioni della natura”, politeiste, non guardavano a una realtà oltre il mondo e celebravano i propri riti in luoghi di culto a cielo aperto o in boschetti vivificati dal genius loci, più tardi nei templi. Solo l’irrompere del cristianesimo, succedaneo della filosofia classica, platonico-aristotelica, in cui già il monismo del pensiero aurorale era, in qualche modo, venuto meno, indusse, in termini definitivi, la visione dualista: la natura subì una radicale svalutazione che la pose, per dirlo con de Benoist, “sotto equazione” del santo, del dio unico, al quale appartenevano onnipotenza e onniscienza. All’uomo non restava che inginocchiarsi di fronte a tale dio. Nel corso di un lungo percorso storico tale dio onnipotente è divenuto paradigma del soggetto moderno teso ad asservire la physis, ridotta a res extensa, a mero dato quantitativo, in modalità prometeica. Evola, nei primi decenni del secolo scorso, portando a estrema coerenza teoretica gli assunti dell’idealismo, in particolare del neo-idealismo attualista, ripropone all’ uomo europeo, in particolare nella prova dell’amore, di cui dice nella Fenomenologia dell’individuo assoluto, la physis quale arché, origine-comando sempre all’opera negli enti. Individuo assoluto, vale a dire, svincolato e libero, è colui che dall’incontro con la libertà, per Evola fondamento-infondato del reale, si mostra fedele a tale principio. In sintonia con l’origine tende, in un processo iperbolico, inconcluso, a s-determinarsi, ad andare oltre se stesso, in una apertura al novum che lo fa testimone vivente dell’ incipit vita nova. Tale individuo non è un titano, né un solipsista, come hanno sostenuto impropriamente alcuni esegeti. Il solipsismo è il punto di partenza dell’evolismo, non il suo punto d’arrivo. Nella fase filosofica, Evola incontra le potestates agenti nel cosmo, gli dèi, in particolare la potenza-libertà testimoniata da Dioniso, l’origine dinamica del mondo.

In particolare mi ha colpito molto il suo accostamento tra Julius Evola e Giorgio Colli. Cosa hanno in comune i due maestri?

Chi voglia liberare Evola dal “ghetto” in cui è stato relegato dai critici preconcetti e dagli “evolomani”, deve “dare aria” alle sue pagine, porlo in colloquio con i grandi del Novecento, leggerle “ereticamente”, mostrando fedeltà alla sostanza delle sue tesi e non semplicemente alla lettera della vulgata tradizionalista. In questo senso, il confronto Evola-Colli, risulta dirimente. Tra gli esegeti dell’uno e dell’altro, solo Gianni Ferracuti sembra essersi accorto di tale crucialità nel suo, La sapienza Folgorante (Roma, 1994). A quindici anni dalla prematura morte di Colli (1917-1979) in questo volume dedicato al filosofo torinese, scrisse che Colli richiede, proprio come Evola, un cambiamento profondo nel suo lettore: «coinvolgendolo in una complessa rete di enigmi: anziché esporgli pianamente una filosofia, lo colloca in una situazione filosofica, di cui spesso nasconde le chiavi interpretative» (p.13). Più in particolare, Colli, con Nietzsche depurato dal teleologismo wagneriano, ha mostrato una nuova via: «il vivere stesso come metodo della conoscenza, l’esperienza come fonte, come deposito più ricco delle semplici parole» (p. 15) . Tale vissutezza, si badi, non lascia spazio all’Erlebnis, essa è indicativa del contatto: «il momento reale dell’esperienza nel quale la distinzione tra soggetto e oggetto non si è ancora prodotta» (p. 16). Con tale lemma viene indicata: «la realtà come assoluto, indipendente da qualsiasi presupposto umano» (p. 16) . La filosofia sorge oltre la percezione di senso comune, da momenti eccezionali: «in cui la persona cosciente sembra aprirsi a forme superiori di lucidità […] dove le classificazioni e le separazioni “oggettive” appaiono insensate» (p. 17).

Tali “momenti” non hanno nulla a che vedere con un “ritorno al passato”, con nostalgie reazionarie. La via all’assoluto è nel presente, sempre possibile, nel senso che a questa espressione è stato attribuito da Klossowski, in forza dell’ esegesi della temporalità sferica, nient’affatto ciclica, di Nietzsche (Nietzsche, il politeismo e la parodia, Milano 2017). La filosofia aurorale era espressione dell’attimo, del contatto, veniva trasmessa oralmente quale conoscenza realizzata, vissuta, conoscenza che si faceva Sapienza. Essa si sottrae alla vista del metodo storiografico, analitico, alla filologia meramente umanista tesa a universalizzare il dato conoscitivo che è, al contrario, sempre individuale, conquista fenomenologica della persona. Il movimento epistrofico cui Colli ci invita è riconquista del divino che, ab initio, è in noi: «il divino che si fa palese, è il fulcro della Sapienza greca e il fondamento della manica» (La Sapienza folgorante, p. 28), come ricorda Evola in Cavalcare parlando della complementarità di Apollo e Dioniso: «Le due figure divine non sono opposte né confuse, ma articolate attorno all’asse centrale dell’esperienza estatica» (p. 29). In essa vengono meno le distinzioni logocentriche imposte dai principi d’identità e della non contraddizione, portato fondamentale, questo, anche dell’Evola filosofo.

Dioniso è il contatto, Apollo lo manifesta attraverso le parole della Pizia delfica che semplicemente alludono, basandosi sul paradosso e sull’enigma. Dioniso è l’occhio folgorante esposto sulla totalità della vita, è la tracotanza del conoscere sapienziale: esige il silenzio del soggetto, della coscienza moderna distinguente, il superamento del confine che nella rappresentazione divide, in primis, quest’ultimo dall’oggetto. Nell’estasi, che Colli intende quale momento apicale dello slancio mistico e per Evola di quello ascetico (i due termini rimandano, in tal contesto, alla medesima esperienza) l’uomo: «amplia l’ambito abbracciato dalla sua consapevolezza e si forma un’altra immagine di se stesso» (p. 31) , si tratta di una reintegrazione. Quanto esiste, la physis, il cosmo, manifesta il divino che solo in esso vive e palpita. Per questo, scrive Colli: «Dioniso è il dio della contraddizione […] di tutto ciò che manifestandosi in parole, si esprime in termini contraddittori. Dioniso è l’impossibile, l’assurdo che si dimostra vero con la sua presenza» (La Sapienza greca, vol. I, Milano 2015, p. 15). Orfeo ha rappresentato il mediatore tra il contatto dionisiaco e l’espressione apollinea: simbolizza il paradosso della polarità e dell’unità dei due dèi. Ferracuti nota che la medesima visione è presente in Evola. Questi scrisse: «Non esiste un mondo dei “fenomeni” […] e dietro a esso, impenetrabile la realtà vera, l’essenza; esiste un unico dato che presenta diverse dimensioni, ed esiste una gerarchia di forme possibili di esperienza» (Lo yoga della potenza, Roma 1968, p. 250). L’origine vige, mai normabile, tanto per Colli quanto per l’Evola filosofo, solo negli enti, la potenza si dà negli atti, l’essenza nell’esistenza. La potenza: «Nella sua libertà […] “Colei che gioca” […] fa apparire il mondo del samsara […] manifestandosi in esso» (Lo yoga della potenza, p. 41). Idealismo magico e filosofia dell’espressione riscoprano il tratto tragico della vita, peculiarità di un filone aureo del pensiero italiano che muove da Leopardi e si mostra, tra gli altri, in Carlo Michelstaedter, Carlo Diano e Andrea Emo.

 

Un interessante sviluppo del pensiero di Julius Evola nella postmodernità ci viene da Alexsandr Dugin le cui opere sono sempre piu diffuse in edizioni italiane e in particolare “Teoria e fenomenologia del Soggetto Radicale”. Come giudica gli sviluppi dell’influenza evoliana nel neoeurasiatismo?

Penso che Evola, soprattutto il filosofo, abbia poco a che fare con l’eurasiatismo. A Dugin va riconosciuto il merito di volere andare oltre Evola e le letture scolastiche del tradizionalismo. Il problema è che Dugin, in quanto russo, è fedele a se stesso, alla visione escatologica e soteriologica della storia, del tutto assente nell’Evola filosofo. La filosofia del russo è debitrice nei confronti della visone del mondo propria dell’Ortodossia e dei “Vecchi credenti”, insigne tradizione spirituale, certo, centrata comunque su un dio trascendente che tacita la dimensione tragica o, al massimo, la legge all’interno di uno scontro, dalla portata universale, tra Bene e Male. Questa sua scelta va rispettata: Dugin l’ha pagata a caro prezzo, sul piano umano, sulla sua stessa pelle. Il sacrificio di sua figlia, impone il silenzio. Resta il fatto che, a differenza del pesatore russo, chi scrive guarda alla physis quale unica trascendenza possibile e mira alla conciliazione di Orfeo e Prometeo.

Ringrazio il Talebano per questa intervista nel cinquantenario della morte di Julius Evola.

Paolo Guidone 

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