IL RICONOSCIMENTO DI ISRAELE. NUOVA LINFA PER GLI ACCORDI DI ABRAMO
Il Sudan è ricordato da Israele come il “paese dei tre no”: fu infatti teatro di un incontro tra “paesi arabi” che decisero di non stipulare accordi di pace con lo stato ebraico, di non riconoscerlo e di non gettare le basi per nessun tipo di negoziato. Quanto sommariamente descritto è sicuramente un importante antefatto alla visita del 2 febbraio quando Eli Cohen (ministro degli esteri israeliano) si è recato in visita in Sudan.
Cohen ha avuto modo di incontrare il generale Abdul Fattah al-Burhan, capo militare del paese, e altri importanti esponenti locali.
Quanto avvenuto assume un’importanza decisiva: il Sudan ha una popolazione a maggioranza musulmana, ha intrattenuto legami con l’Iran, non ha mai smentito la propria simpatia verso la causa palestinese e in passato ha dato rifugio ad Al-Qaeda. Il Sudan è strategicamente fondamentale agli occhi di molti paesi, compresa la Russia che vorrebbe che Port Sudan diventasse una propria base militare.
La situazione è cambiata nel momento in cui è stato rovesciato il regime di Omar Bashir nel 2019, il golpe dei militari ha segnato un cambio di passo decisivo per il riavvicinamento con Gerusalemme (gli Usa e gli Emirati Arabi Uniti hanno fortemente sostenuto questo cambio di rotta).
Quanto descritto ci fornisce una nuova chiave d’interpretazione degli Accordi di Abramo: essi non assumono unicamente lo scopo di creare relazioni con stati “arabi”, ma forniscono ad Israele un nuovo mezzo per stipulare accordi geopolitici più ampi anche con il continente africano.
Il progetto di “ampliamento geopolitico” è sicuramente un obiettivo di lungo corso messo in atto da Benjamin Netanyahu: fonti non ufficialmente confermate hanno riportato notizie secondo cui, nel corso del 2020, sono state aperte “nuove rotte diplomatiche” anche con il Burhan e l’Uganda.
Mahamat Idriss Déby (presidente ad interim del Ciad) si è recato recentemente in Israele per l’apertura di un’ambasciata ciadiana. I due paesi hanno ristabilito un dialogo diplomatico nel 2019 durante la presidenza di Idriss Déby Itno, genitore dell’attuale leader, che ha guidato il paese per 30 anni.
Indubbiamente è stato decisivo il fatto che le autorità israeliane abbiano saputo mantenere la linea di dialogo “aperta” nonostante il passaggio di consegne presidenziali: Ben Bourgel (ambasciatore in Guinea, Guinea-Bissau, Senegal, Gambia, Capo Verde) nel maggio 2022 è stato il primo diplomatico dopo decenni a presentare le proprie credenziali alla leadership del Ciad.
David Barnea (direttore Mossad), subito dopo il giuramento, ha invitato Déby in Israele. Questa occasione è stata tenuta segreta fino all’atterraggio perché si temeva che l’Algeria potesse in qualche modo influenzare negativamente il leader ciadiano. Il Marocco, che ha interrotto ogni forma di dialogo con Teheran dal 2018, ha più volte “denunciato” l’operato iraniano che, con la complicità di Algeri, sembra corrobori gli scontri legati al territorio conteso con il popolo Saharawi per mezzo dell’operato del Fronte Polisario.
Gerusalemme vede il Ciad come un elemento di forte interesse a carattere securitario: N’Djamena è stato il più importante partner della Francia nella lotta alle cellule jihadiste e il sostegno di Israele in tal senso potrebbe far sì che esponenti pericolosi della galassia estremista non giungano in Palestina dove, recentemente, si è visto il forte riacutizzarsi degli scontri con lo stato ebraico. La nuova alleanza con Israele sembra finalizzata anche al contrasto dell’influenza iraniana nel Sahel; quanto la penetrazione ideologica del paese degli ayatollah e di Hezbollah sia effettiva nella zona è un aspetto ancora poco verificabile.
Arianne Ghersi
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