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LE INTERVISTE TALEBANE: MATTEO LUCA ANDRIOLA

Grazie carissimo Matteo Luca Andriola di concederci questa intervista. Tu sei autore di due edizioni del testo “La Nuova Destra in Europa il populismo e il pensiero di Alain de Benoist”. Nell’ultima edizione affronti un tema fondamentale che condensa il tuo lavoro ovvero il tema dei nuovi paradigmi. Sulla base dei tuoi studi il populismo e le correnti derivate dalla Nuova destra hanno realmente superate il discrimine destra-sinistra tali da poterle considerare come un nuovo paradigma?

 

Innanzi tutto ringrazio voi de “Il Talebano” per lo spazio che mi concedete. Parto dal presupposto che scindo sempre l’impianto intellettuale delle riflessioni filosofiche e metapolitiche della cosiddetta Nouvelle Droite europea, da me analizzata nelle due edizioni de La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist (Ed. Paginauno, 2014-2019), e l’agire dei movimenti nazional-populisti di destra.

Questo perché nel primo caso si entra nell’ambito della riflessione metapolitica, una riflessione alta che a volte pare aver approfondito temi che di primo acchito paiono “impolitici”, come ad esempio il paganesimo e le radici indoeuropee del popolo europeo, ma che che alla lunga hanno riverberi pratici, come, nel primo caso, la critica all’unipolarismo, all’omologazione e al pensiero unico che, negli ambienti del GRECE, vengono visti come figli diretti di un monoteismo che, secondo de Benoist, è universalista, e perciò “mondialista”; la critica anticristiana del neodestrismo è una critica antropologica alle ideologie moderne tutte che nascerebbero dalla successiva secolarizzazione del giudeo-cristianesimo, con una comune visione lineare – e progressista – della storia umana, dal peccato originale al perfezionamento, fino alla desacralizzazione del mondo e della natura, privata della sua dimensione sacra, in nome di un’unica fonte di verità, Dio, Yahweh, non solo svuotando il mondo della sua sfera sacra, ma riducendo il “sacro” al “santo”, dove quest’ultima nozione ha una definizione morale, mentre la prima no. Un mondo monoteista a misura d’uomo, svuotato della sua dimensione sacra e dove tutti sono spiritualmente uguali e fatti a somiglianza di Dio, è, in fase di secolarizzazione, un mondo dove l’uomo ne è proprietario e padrone assoluto, dove la “macchinazione” (Macheschaft) consente la sottomissione del mondo a principio del calcolo e della ragione (Gestell) e, citando un’autore caro alla Nouvelle Droite, Martin Heidegger, dove la tecnica in definitiva è solo metafisica realizzata.

Ne conseguono da parte di certi circoli intellettuali non solo mere speculazioni filosofiche fini a sé stesse, ma soluzioni identitarie atte a difendere e preservare le tradizioni ancestrali del popolo autoctono indoeuropeo da ogni cosa che, frutto della modernità omologante, può deturparne l’identità, dalle mode provenienti Oltreoceano – da sempre viste con diffidenza da certi ambienti – all’immigrazione incontrollata. Ha perciò un piano sia “impolitico” che può divenire “politico”, cioè concreto.

Qui entrano in ballo certi settori del populismo post-industriale che, in parte per la provenienza di diversi suoi quadri fra le fila della politica del radicalismo di destra in parte per una reazione ai fenomeni negativi della globalizzazione neoliberista, si rifanno a certe tesi animando associazioni che intrattengono un dialogo attivo con certi settori della nuova destra metapolitica intellettuale, cercando di concretizzare certe riflessioni. Ma la Nouvelle Droite europea cerca di andare oltre la destra e la sinistra, non limitandosi ad un dialogo con militanti identitari ma anche con coloro che, in critica alle contraddizioni della postmodernità, si situano a sinistra.

Due eventi, uno locale e l’altro globale, sembravano aver favorito tale oltrepassamento, ma temo che certe riflessioni siano ancora acerbe. Il primo evento locale è stato il governo giallo-verde Lega-M5S retto dall’avv. Giuseppe Conte nel 2018-2019, che vedeva due populismi post-industriali diversi, uno identitario e l’altro sociale, allearsi obbligatoriamente – pena il ritornare a elezioni anticipate – e guidare il paese. E’ interessante che in quella fase il mainstream attaccherà ambo i partiti per certe posizioni in politica estera come l’apertura alla Federazione Russa e alla Nuova Via della Seta proposta dalla Repubblica Popolare Cinese, nonché per interessantissime soluzioni socialmente avanzate osteggiate dal centrodestra e centrosinistra come l’introduzione del reddito di cittadinanza, Quota 100, tutte proposte di area pentastellata, in simultanea a soluzioni securitarie di matrice leghista come una stretta sulle migrazioni, nuove misure sulla sicurezza (che il PD, nel successivo governo giallo-“rosso” si guardò bene dall’abrogare e che serviranno durante la pandemia) passando per una trasversale battaglia con Bruxelles sull’asticella del deficit. Molti intellettuali “non conformi”, diversi dei quali aperti alle riflessioni di Alain de Benoist, compreso lo stesso GRECE parigino (cfr. Éléments n. 176, febbraio-marzo 2019 intitolato “Italie: le laboratoire politique du populisme”), videro nel governo giallo-verde la concretizzazione di anni e anni di tentativi di superare la destra e la sinistra rendendo quasi obsoleta la figura delle opposizioni, dato che la dialettica pesante fra Lega e M5S sembrava sopperire quella fra maggioranza e opposizione.

L’unico intellettuale coi piedi per terra, vista la formazione accademica, fu il prof. Marco Tarchi, politologo e storico esponente della ND italiana, che si mostrò cauto a riguardo, facendo che fece intendere che la strada delle “nuove sintesi” era al di là dal concretizzarsi, e che molti fattori interni a quei due partiti potevano causare, come poi avvenne, una rottura. Una causa la identificai io stesso sulle pagine di Eurasia. Rivista di studi geopolitici, a. XV, n. 4, ottobre-dicembre 2018, pp. 81-99 nel saggio breve “L’altalena di Lega e Cinque Stelle fra Mosca, Washington e Tel Aviv”! Nell’articolo analizzavo i programmi di politica estera dei due partiti nonché le sue componenti “antisistemiche” e “sistemiche”, che a mio dire non andavano sottovalutate, perché, non dimentichiamocelo, a Washington c’era alla Casa Bianca dal 2016 Donald J. Trump, che per quanto si ponesse come figura “antisistema”, portava elementi di continuità con le precedenti amministrazioni americane, specie in politica estera, aprendo una guerra contro la Cina Popolare (sempre più vicina a Mosca) e auspicando al ritorno del Cremlino nella sfera d’influenza occidentale com’era ai tempi di Boris El’cin e nei primissimi anni dell’amministrazione Putin. Il caso “Papeete” è questo: un’offensiva atlantista per evitare che l’Italia aprisse a Est da parte del “partito atlantista” presente in ambo i due partiti populisti e, ovviamente, in seno all’opposizione. Non dimentichiamoci la figura di Giancarlo Giorgetti (ex Msi) e i suoi incontri con l’ambasciatore americano Lewis Eisenberg a Roma a inizio 2019, cui seguirà una critica sempre più evidente da parte di Matteo Salvini alla Nuova Via della Seta. Lo stesso dicasi del “Russiagate” ai danni di Gianluca Savoini, leghista filorusso proveniente dal vivaio della rivista nazionalbolscevica ed eurasiatista Orion, di Maurizio Murelli, e della politica di apertura a Mosca, stavolta imbandito dal mainstream “progressista” libdem (il Partito Democratico in primis), che alla fine non s’è risolto in nulla di fatto se non nel far evaporare come neve al sole la rete di associazioni leghiste filorusse (Lombardia-Russia in primis) che avevano come obiettivo il favorire una sinergia economica fra noi e l’Est a vantaggio della media impresa del nord-est, e rimmettere il Carroccio nel classico schema destra/sinistra come partner del centrodestra; seguirà poi una cosa simile ai danni del M5S con la conseguente e graduale chiusura in primis ai danni della Cina Popolare e della Nuova Via della Seta.

Altro episodio, quest’ultimo globale, è la pandemia da Covid-19, che vede i due partiti “antisistema” diventare sistema essi stessi, e che vede nascere un’area del cosiddetto “dissenso”, critica verso la gestione sanitaria. Temo – e qui sarò breve – che i pessimi risultati alle elezioni del 2022 siano frutto della delusione della stagione giallo-verde – con la paura che i vari Rizzo, Toscano, Paragone, Cunial ecc. fossero dei novelli Di Maio e Salvini una volta entrati in parlamento -, ma frutto anche dell’ottimo lavoro di propaganda fatto da Fratelli d’Italia, che di fatto s’è dimostrato un sequel perfetto al governo Draghi, anche per la politica estera occidentalista (ma questo è parte del background missino, filoisraeliano e filoamericano da sempre eccetto le sue frange minoritarie) e per la presenza della sua leader, Giorgia Meloni, nell’Aspen Institute, quindi una garanzia di continuità col draghismo. Peccato che gli strali sulla gestione pandemica abbiamo avuto un’ottimo effetto, e perché votare Rizzo, Toscano, Paragone, la Cunial ecc., alcuni dei quali parlavano di oltrepassamento della diade antinomica destra/sinistra (Italia Sovrana e Popolare univa il Partito Comunista di Marco Rizzo, con una linea populista di estrema sinistra, Ancora Italia, che sposava una linea costituzionalista ma aveva fra i suoi quadri singoli provenienti da destra, e altre realtà sovraniste… percentuali omeopatiche!) quando posso votare Giorgia Meloni, che ha più possibilità di entrare in paramento? Aggiungo poi che durante la pandemia è esploso, come app di messaggistica alternativa, Telegram, e lì ho notato, nei gruppi della cosiddetta “area del dissenso”, il proliferare di tesi trumpiane o legate al gruppo QAnon, impostate in modo da far sposare all’utente posizioni sinofobe e/o New Age e qualunquiste, portate anche al totale disimpegno elettorale. Una grossa fetta della critica, perciò, non ha portato ad un nulla di fatto se non ad una critica individualistica fine a sé stessa sulla libertà conculcata, e non su come si fossero adottati protocolli sanitari non sempre adeguati dopo anni e anni di tagli alla sanità pubblica e su come il paese fosse di fatto commissariato da multinazionali farmaceutiche e da organismi sovranazionali come l’OMS. Risultato? Chi proponeva laboratori trasversali ha preso percentuali da prefisso telefonico, una grossa fetta ha votato FdI e un’altra componente è rifluita in posizioni New Age a mio dire inutili.

Nel tuo libro hai parlato del lavoro identitario del think tank “Il Talebano” che mantenendo saldo il regionalismo non pensa più alla secessione ma ad un Italia dei popoli. A questo riguardo nel 2022 è uscito proprio nel’ ambito del nostro laboratorio culturale il testo di Paolo Guidone “Come difendere la nostra identità” che effettivamente elabora concetti di comunitarismo, neopatriottismo nuove sintesi partendo dal revisionismo antirisorgimentale. Tu come studioso come classificheresti questo testo?

Il testo di Paolo Guidone e il vostro think tank, come ho detto sopra, è un tentativo di concretizzare le posizioni intellettuali della Nouvelle Droite in Italia (nonostante esista dagli anni Settanta il laboratorio metapolitico animato dal prof. Marco Tarchi attorno a riviste come Diorama letterario e Trasgressioni e, durante la pandemia, sia nato il GRECE Italia, una sezione italiana del centro studi parigino che include giovani studiosi preparati) per gettare le basi per un movimento identitario italiano, non limitandosi ad un discorso nordista come quello della vecchia Lega Nord o delle leghe regionali settentrionali, ma parlando a tutti gli italiani. Guidone – che ringrazio per avermi citato nella sua intervista radiofonica a Radio Padania Libera e nel suo libro – sostiene che il nazionalismo è cosa diversa dall’identitarismo, perché non è omologante.

 

L’autore è inoltre di origini meridionali (come il sottoscritto, pur residente fuori Milano) e questo conferma che l’errore del vecchio leghismo fu quello di non spingere in avanti un discorso contro “Roma Ladrona” parlando con chi era vittima stessa del centralismo sin dall’800 al pari dei settentrionali, e cioè i meridionali, mentre l’autore – rivolgendosi a voi de “Il Talebano” – propone un movimento regionalista e identitario che da nord a sud combatta la modernità liquida omologante, sostenendo che questo patriottismo del XXI secolo, come reputo essere “neo-romantico” e völkisch, figlio della konservative Revolution e in aperta opposizione all’odierna modernità (e che ha fra i suoi intellettuali di punta, oltre ad Alain de Benoist e Marco Tarchi, teorici come Dominique Venner, Guillaume Faye, Robert Steuckers, Pierre Vial, Jean Haudry, Jean Varenne, Thierry Mudry, Stefano Vaj, organici al neodestrismo, e altri come Gualtiero Ciola, Federico Prati, Silvano Lorenzoni, ecc.) si nutre di suggestioni antirisorgimentali, e questo penso sia interessante: la base del progetto è metapolitico, intellettuale, ed è facendo un lavorio intellettuale, e non meramente militante, che si gettano le basi per costruire un’egemonia culturale sul lungo termine. Il GRECE parlava a riguardo di “gramscismo di destra” e in Francia chi svolse un lavoro simile a livello storiografico è stato Dominique Venner con le due riviste di storia revisionista Enquête sur l’histoire (1991-1999) e La Nouvelle Revue d’histoire (2002), che diffonderanno nell’ambiente nazionalista e identitario francese gravitante attorno al Front Nationale e al successivo Rassemblement Nayional lepenisti, dov’è forte il patriottismo francese centralistico, tesi di tipo anti-giacobino e a vantaggio delle insorgenze come quella monarchica in Vandea.

 

Personalmente non ho posizioni antirisorgimentali: da basi materialiste storiche reputo tale fenomeno storico “necessario” (si notino le virgolette) perché, tolta ogni retorica neoazionista alla Carlo Azeglio Ciampi, l’unità d’Italia era richiesta con impellenza dal nascente capitalismo (straccione) del nord Italia e da una fetta della borghesia meridionale (e di altri stati regionali) che vedevano come limitante, o “incapacitante”, limitare la propria attività entro stati-regionali mentre in tutta Europa, sin dal Cinquecento, sorgevano stati-nazione e gli stati sovranazionali imperiali erano in crisi. Fu utile perché al capitalismo di allora, forte nel settentrione, serviva avere un solo mercato interno e non pagare diecimila balzelli e tasse doganali da nord a sud. Non fu ovviamente un processo impellente per il proletariato italiano del nord e del sud, che fu coinvolto nei moti risorgimentali solo in minor misura (nelle città, soprattutto). Personalmente, senza approdare a tesi antirisorgimentali neoborboniche alla Pino Aprile, non nego che vi furono contraddizioni in quel processo storico, e che il primo a sinistra che mise l’accento sulle contraddizioni dell’unità d’Italia fu Antonio Gramsci nel testo Il Risorgimento, ne I Quaderni dal carcere. Gramsci, partendo dalle tesi di pubblicisti liberali meridionalisti come Guido Dorso, definì il processo unitario come una “conquista regia” portata avanti dal Piemonte savoiardo e avvenuta a causa della debolezza della borghesia che, a causa della sua scarsa forza sul campo, temeva di porsi alla testa delle masse popolari, contadini in testa; Gramsci rilevava che l’inerzia delle masse contadine avevano reso tale processo una “rivoluzione passiva”, che rese il sud una semi-colonia del nord (all’inizio il baricentro era in Piemonte) da cui calò un processo di “piemontizzazione” che non non solo ha dato vita a quel processo detto “Questione Meridionale” (che spiega la migrazione dei meridionali verso il nord sviluppato e industrializzato soprattutto durante il Boom Economico, fenomeno oggi ridimensionato dalla deindustrializzazione) ma non fece altro che favorire quel malcontento di cui si nutre una certa pubblicistica neoborbonica per proporre tesi antirisorgimentali. Negli anni Sessanta sarà lo storico marxista Eric Hobsbawm, nel libro I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna [1969] (Einaudi, Torino 1971), a spiegare che molte forme di ribellismo come il brigantaggio erano una “forma di ribellione individuale o di minoranze all’interno delle società rurali” (p. 11), e quindi non mi pare fare reato di lesa maestà ammettere che, se dialetticamente l’unità d’Italia fu “necessaria”, come notava Gramsci – che non mi pare fosse neoborbonico o nostalgico degli Asburgo -, tale processo proseguì in maniera non del tutto positiva per le masse popolari del centro-sud, che come reazione alla “piemontizzazione” – simile a quella avvenuta con l’avvento dei francesi dal 1799 – si diedero al brigantaggio, represso con azioni militari dure.

 

Ammetterlo, da persona che reputa necessaria l’unità d’Italia, significa capire cos’è la “Questione Meridionale” e cercare di ovviarvi. Comprendo l’intento politico di Paolo Guidone, e cioè avviare una critica metapolitica all’omologazione giacobina che, sempre collegandoci a quanto detto all’inizio, dal monoteismo ci porta all’omologazione mondialista, dove la creazione nel Quattrocento-Cinquecento degli stati-nazione che cancellarono le consuetudini locali nate in età premoderna col medioevo, con lo sviluppo degli assolutismi, ne è la tappa intermedia imprescindibile. L’intento metapolitico è interessante – salvo uscire dalla sacca di un’area che editorialmente parla a chi già conosce certi temi per approdare nel campo della storiografia mainstream e del giornalismo che conta – ma manca un soggetto politico, e temo che la Lega abbia dimostrato che è brava a dare spazio a certi temi sui suoi periodici, ma alla prova dei fatti fatica a muoversi se non da basi economiche, vedi le proposte di federalismo fiscale o l’autonomia differenziata proposta dal ministro leghista Calderoli, che avverso non tanto perché non faccio mistero esser “giacobino” (eredità storica in cui mi riconosco, pur ammettendo eccessi come quelli dal Terrore al Risorgimento) ma perché attribuire alle regioni una podestà legislativa su ben ventitré materie come Scuola e Sanità senza non prima aver fatto riforme di struttura socialmente avanzate a vantaggio del Mezzogiorno, creerebbe solo ulteriore disparità fra nord e sud a vantaggio dei primi, già economicamente più ricchi, alimentando ulteriori disuguaglianze. Quindi diffido della buona fede leghista, che ha dimostrato col governo Conte I di non esser antisistema ma sensibile a certi richiami confindustriali o provenienti da Washington.

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