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CONSIGLI PER GLI ACQUISTI: LE DISCRIMINAZIONI NEL MONDO DEL LAVORO

Il nuovo libro di Corrado Marvasi

1) Con il presente libro, attraverso la spiegazione del fenomeno discriminatorio come modalità espressiva della mente umana, ho inteso esaminare tutti gli aspetti in cui lo stesso si manifesta. Non stupirà, allora, constatare che l’iniziale significato del termine non riveste connotazioni negative;

 

2) Il discriminare rappresenta, anzi, una naturale operazione dell’intelletto, indispensabile a separare, ovvero a distinguere, situazioni che tra loro, nonostante l’apparenza, non coincidono e che, proprio a causa di tale non sovrapponibilità, è necessario far emergere nei tratti che le contraddistinguono: ad esempio, in ambito giuridico ed in particolare in tema di responsabilità è di assoluta importanza non confondere, quindi discriminare, un contesto circostanziale da un altro, poiché solo così è possibile assegnare a ciascuno quel che spetta secondo i propri meriti, ma anche le proprie manchevolezze (suum cuique tribuire);

 

3) In definitiva, la discriminazione, nella sua originaria valenza semantica, riveste un’indubbia caratterizzazione positiva, costituendo l’asse portante d’ogni giudizio sia questo condotto nella quotidianità che nei consessi più eruditi di filosofia, di economia, di diritto, di politica e della determinazione delle sorti di una specifica vicenda all’esame di un magistrato o di un pubblico dibattito. Mutatis verbis, è improponibile un qualsiasi ragionamento non sorretto dalla capacità discriminatoria. A questo punto, chi non sa discriminare è di norma sprovvisto di una logica coerente, di una vocazione critica che lo tenga lontano dalle nebbie della confusione;

 

4) La discriminazione, trattata nel libro, è però quella che prende spunto da una sua connotazione in malam partem, venendosi con essa a ravvisare dei distinguo che non hanno ragione d’essere, in quanto condotti tra i singoli in base a loro condizioni di natura genetica, etnica, o relative ad orientamenti politici, sindacali, religiosi, ecc., sì da tracciare dei solchi differenziatori, con evidente lesione del principio paritario di fronte alla legge; a questo punto, la “discriminazione” abbandona la dimensione critica, tipica di ogni lineare ragionamento, per occupare la sponda comportamentale del sopruso ai danni di soggetti che, a causa di quelle condizioni, s’intendono escludere da una micro o macro compagine: si innesta una battaglia, a volte nascosta ed a volte esplicita, il cui obiettivo è l’isolamento del o dei malcapitati; 

 

5) La Costituzione, non solo inibisce qualsiasi distinzione fondata sul sesso, sulla razza, sulla lingua, sulla fede, sulle opinioni, piuttosto che sugli stati personali e sociali degli individui (comma 1, art. 3), ma stabilisce essere “compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (comma 2, art. 3);

 

6) Dalle richiamate premesse, che rinvengono nel principio di eguaglianza il loro fondamento e del quale sono altresì pervasi gli enunciati degli organi sovranazionali cui l’Italia aderisce, discende il divieto di qualunque forma emarginativa, che andrà convenientemente sanzionata tramite un percorso inibitorio e dissuasivo anche per mezzo del riconoscimento a favore della vittima dei c.d. danni punitivi, allorché la condotta colpevole rivesta tratti responsabilizzanti di particolare gravità (come nell’ipotesi di ritorsioni messe in opera da un datore di lavoro per liberarsi di un dipendente “scomodo”, portandolo, ad esempio, o cercando di indurlo, alle dimissioni a causa di un malsano ambiente lavorativo, creato dallo stesso titolare dell’azienda); si tratta di danni, il cui ristoro va a superare l’effettiva perdita incamerata dal soggetto passivo dell’illecito, al fine di tenere conto, nella sua liquidazione, dell’indicata gravità; da qui la componente punitiva, per lo più nota ai sistemi anglosassoni; 

 

7) È proprio nel mondo del lavoro ed è nell’attuale momento storico che tal tipo di “discriminazione”, fonte di vessazioni ed angherie, ha assunto un significato di indubbio disvalore, concentrando su di sé molta attenzione del pubblico sentire nella misura in cui denota la ghettizzazione cui un prestatore – pubblico o privato, subordinato o meno e, quindi, anche un libero professionista (ingegnere, architetto, avvocato, medico, ecc.) – viene costretto, per la propria indole o per avere manifestato di aderire ad una cultura non gradita a chi, tra i colleghi o nelle “alte sfere” dell’azienda o dell’ordine cui è iscritto, tiene le redini del comando; 

 

8) Orbene, se la cosa più misera è “bersagliare” qualcuno per puro divertimento, prendendo a spunto un suo difetto, se non una sua disabilità, non v’è dubbio che marginalizzare un individuo per i suoi pensieri è ancor più deprimente, visto che senza la libertà di pensiero non esiste un pur minimo abbozzo di civiltà. In una dimensione del genere, ci poniamo, infatti, ben lontani dal celebre principio di volteriana (così sembra) memoria: “combatto la tua idea, ma farò di tutto, fino al sacrificio della mia vita, perché tu possa esprimerla”. Il dramma è che vengono spesso “appiccicati” alla vittima concetti lontani dalla sua mentalità, mai comunque da lei formulati e tuttavia in grado, nell’immaginario collettivo, di danneggiarne la reputazione. Il proposito, invero, non è il confronto su un dato orientamento, ma la “distruzione” di chi lo rappresenta, o, almeno, del soggetto al quale viene malevolmente addebitato;

 

9) Alla fine, i sistemi per raggiungere il bieco obiettivo sono i più vari. Omettendo i metodi violenti – come il bullismo di cui la giurisprudenza, nel disinteresse normativo, comincia, a riconoscere, rispetto al mobbing, l’autonoma incidenza nei luoghi di lavoro, oltre che nella vita quotidiana -, il più “facile” è, quindi, lo “stigma”, vale a dire la caricatura, spesso ideologica, di chi venga preso di mira, al fine di metterlo in cattiva luce nell’ambiente ove opera. La tecnica è semplice: gli si associa un nomignolo con valenza negativa, che evochi pedanterie e complicazioni relazionali (“piantagrane”), o disgrazie per chi vi abbia a che fare (“portasfiga”, affibbiato anche a gente dello spettacolo: Mia Martini; Marco Masini; Sergio Endrigo, per segnalarne alcuni); ovvero “pericolose” provenienze meridionali (terrone e, nello specifico dal dialetto piemontese, mau mau; si ricordino le scritte nel settentrione del boom economico quali: “non si affitta ai meridionali”, definito un “cartello disarmante nella sua normalità” da Paolo Griseri nel suo articolo su https://www.repubblica.it in data 14 settembre 2019), ovvero ancora impostazioni intellettuali pericolose, ad ogni modo odiose; 

 

10) La fantasia, per “bollare”, schernendo, chi si ritenga un intruso da mettere all’angolo, non manca; anzi, abbonda. È un po’ come la rossiniana “calunnia” del Barbiere di Siviglia, che, una volta scagliata, si nutre da sé, ingigantendosi nel passare di bocca in bocca, finché “il meschino calunniato, avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello, per gran sorte va a crepar”. La cronaca di queste ultime ore ci offre un chiaro segno di come possano innescarsi accesi contrasti con sullo sfondo non la disputa sul merito di una particolare questione, ma l’abbattimento dell’antagonista: ci riferiamo alle celebrazioni pucciniane, culminate, dopo la contestata esecuzione dell’Inno a Roma ad opera di Beatrice Venezi, col licenziamento del direttore d’orchestra Alberto Veronesi, per essersi bendato durante l’esibizione dal palco di Torre del Lago a causa di una sceneggiatura d’ispirazione sessantottina della Boheme, voluta dal regista francese; 

 

11) Ora, al fondo della querelle e delle iniziative processuali preannunciate da Veronesi (al quale va, per quanto poco possa contare, la nostra vicinanza nella misura in cui non concordiamo con le decontestualizzazioni, ahimè divenute quasi abitudinarie, delle opere liriche), vi è il tema di un certo estremismo di cui sempre di recente sono accusati il governo e la sua premier Meloni, alla quale giorni addietro Brian Molko il 10 luglio u.s. durante un concerto svoltosi a Stupinigi ha lanciato le seguenti invettive: “Fascista, razzista, nazista, pezzo di m…” e qualcos’altro; accuse analoghe le vengono rivolte in maniera più o meno esplicita anche dall’intellighenzia (v. l’articolo su https://www.micromega.net in data 27 aprile 202: “Giorgia Meloni fascista? Peggio, reazionaria” a firma di Pierfranco Pellizzetti; identiche osservazioni dello stesso autore sono ospitate su https://www.ilfattoquotidiano.it in data 26 aprile 2023: “Meloni fascista o antifascista? Direi piuttosto reazionaria. Ecco perché”; mentre in data 27 aprile 2023 https://www.internazionale.it esce con l’articolo di Alessandro Calvi : “Sul fascismo la destra sfida Sergio Mattarella”), nonché da gran parte delle forze di opposizione e ciò in contrasto con gli iniziali apprezzamenti, trasversalmente formulati prima della sua vittoria elettorale; 

 

12) Quanto sopra induce ad un paio di riflessioni; una, di carattere generale, ci porta a dire che il “fascismo”, o estremismo di destra come si voglia definirlo, è un argomento mai sopito, nonostante gli ottanta anni circa dalla sua caduta. In altri termini, è come se qualcosa, della storia del nostro Paese, fosse rimasto “irrisolto”. Invero, al di là della modalità offensiva con cui viene proferita, l’espressione fa mostra di una cicatrice ancora aperta, pronta a far traboccare il liquame di un contagio mai riassorbito. Non può negarsi, anzi è assodato che da molti non si intenda far pace con un certo passato del nostro Paese: tanto sembra emergere dalla recente intervista di cui dà conto l’articolo su https://www.huffingtonpost.it in data 25 aprile 2023, nel quale l’ex senatore Rino Formica bacchetta Luciano Violante per avere questi in più occasioni sollecitato una riconciliazione nazionale, mentre mai, sostiene Formica, potrà esserci “pacificazione con dottrine che uccidono e distruggono la democrazia”. Le armi di quella lotta, pur solo confinata nell’intimo dei ricordi, non si vogliono quindi deporre e non può dirsi che non abbiano prodotto morti e feriti a distanza di decenni dalla caduta del regime, coinvolgendo nelle file degli avversari da abbattere anche i (semplici) non allineati a sinistra: il ’68 docet; un ’68 che pare, come insegna il “caso Veronesi”, tornato in auge ed a quell’epoca (nel ’68) era facile essere confuso come estremista di destra, se ti esprimevi in modo da apparire i tuoi pensieri estranei “all’arco costituzionale”, ossia “politicamente ed ideologicamente fuori gioco”. Avviene, così, che il vocabolo “fascista”, dopo un periodo in cui pareva caduto in disuso, è tornato di moda a seguito delle ultime elezioni politiche, quasi a far ritenere che se la Meloni non avesse vinto, quel vocabolo non sarebbe tornato agli onori della cronaca, almeno, fino alla prossima “opportuna” occasione; 

 

13) In definitiva, l’insulto “fascista” – il quale deve appunto comunicare un’offesa di tale e tanta gravità da ammutolire chi ne sia destinatario – evoca con il marchio discriminatorio ed il profondo disprezzo che con esso si vuole rivolgere a chi si intende politicamente zittire (v. l’episodio di Brian Molko a Stupinigi), un ben altro e più profondo problema: ossia la mancata chiusura di un preciso periodo della nostra storia; il tutto, lo abbiamo detto, al pari di una ferita che si teme che si rimargini, per paura che possa riaprirsi e quindi la si tiene infetta. È un paradosso, ma è così e, ad ogni modo, non può negarsi un irrisolto chiarimento all’interno della storia del nostro Paese; 

 

14) Ma le cose vanno avanti e nel linguaggio comune, “fascista” oggigiorno non è tanto un seguace del movimento che governò l’Italia dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943, bensì un dispotico, un prepotente ed autoritario (così Treccani online). Quanto precede offre maggiormente il senso del proposito ghettizzante che col termine in oggetto si vuole comunicare. Si potrà, infatti, essere stati da una parte o dall’altra delle barricate che, per oltre due anni, insanguinarono l’Italia prima della metà degli anni quaranta del secolo scorso, ma una cosa è certa: il termine è strumentalmente adoperato  per avversare una fazione politica o per isolare uno o più malcapitati che, non solo non vissero (in quanto non ancora nati) quei tragici momenti, ma che vengono additati come suoi sostenitori e ciò al solo scopo di isolarli da un contesto lavorativo/professionale, impedendo loro di esprimere le capacità ed attitudini di cui sono forniti. Che l’attribuzione politica sia una pura invenzione, poco conta: il sigillo si è impresso sulla fronte della vittima, la quale, ovunque vada (parliamo di occupazione), è preceduto dall’indelebile nomea assegnatale per impedirle di emergere. 

Cor

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