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LE INTERVISTE TALEBANE: LUCIO DECIMO TODDE

…In un pomeriggio uggioso dell’aprile del 1966, Piero Zurlo si trova a scrivere alcune lettere ai suoi cari vecchi commilitoni, per raccomandare loro di ritrovarsi tutti nella 39° adunata nazionale degli alpini, che si terrà di lì a pochi giorni a La Spezia. Nell’ora di chiusura pomeridiana del suo laboratorio d’orologiaio, comincia a scrivere la prima lettera ma la sua mano, ben presto, si ferma e un passato doloroso si fa vivo e presente. Appartenevo al glorioso Pinerolo 9° Batteria del IV Reggimento artiglieria di montagna… Caro Semeria, ti scrivo… Li ho visti nella bruma della sera, li ho visti l’altro ieri al nostro passaggio nei pressi della riva del fiume. Ammucchiati senza un filo di sole sui loro volti appassiti dalla morte… Non un fiore, non una lieve parola cadeva sui loro corpi addormentati nel suono dell’acqua che greve scorreva e smembrava il silenzio. Spoglio e raccolto, il Vojussa intonava a me, che solo ascoltavo il funebre canto dell’alpino. Dove vai alpino perduto nel gelo… Riposa in pace nobile soldato, dormi nella steppa immacolata di bianco, dove passa l’alpino cantando ancora la Montanara. Addio Capitano! Io vado avanti…

(tratto da “Storia d’amore e di guerra di un alpino: Un orologiaio sul Don” 2016)

Il termine etnoregionalismo narra del legame quasi erotico tra lingua, cultura, storia, tradizioni e la territorialità che li genera. Tale riferimento semantico è stato usato da vari politologi per analizzare fenomeni di carattere autonomista a radice indipendentista, i quali certamente possono essere riconducibili al clevage centro-periferia  o a sue variabili ma che, incontestabilmente, hanno radici premoderne  nella lunga e complessa sedimentazione dell’identità dei popoli.  Gaetano Salvemini, per citare un padre nobile, affermava quanto necessaria fosse la riorganizzazione politica della penisola italiana in territori autonomi. Lo dimostra nel saggio “La questione meridionale e il federalismo”, pubblicato nel 1900 sulla rivista “Critica sociale” dove Salvemini scriveva: “Il federalismo è l’unico sistema amministrativo che possa eliminare ogni artificiale squilibrio finanziario ed economico fra le singole regioni italiane.” A quei tempi lo stivale italiano era ancora dotato della sua banca nazionale che ben sapeva misurare in oro le sue risorse con il resto del mondo civilizzato: il Banco di Napoli. Sotto questo aspetto, una rivisitazione della storiografia ufficiale si sta facendo avanti in maniera sempre più determinata e sapiente. L’obiettivo non è fare sensazionalismo ma cultura vera e non di circostanza. L’Italia è una e indivisibile ma ha senso soltanto nella sua narrazione, vera, di Italia dei Popoli di radice latina e mediterranea. Noi de “Il Talebano” stiamo portando avanti da tempo, attraverso il metodo dello studio scientifico e del confronto ragionato, un’analisi a tutto quel processo definito Risorgimento. Il nostro metodo è trovare i giusti contenuti ad una evoluzione storica che tanto ha di artificioso e mal narrato, senza però far ricorso a scontate critiche di sistema e o, peggio, piagnistei nostalgici di quello che poteva essere e non è stato.

Ne parlavamo precedentemente, la storia attuale ci ripropone antichi canovacci. L’attuale organizzazione dell’Europa nulla a che fare con il senso regionale di appartenenza dei suoi abitanti; pare di rivedere una Storia antica 200 anni che si ripropone oggi allo stesso modo con l’annientamento del Sistema Italia, o meglio, del Sistema Comunitario in una visione mondialista orba di una sua identità vera. L’Europa, oggi ostaggio dei Falchi del Nord, è reale nella sua declinazione di Europa dei sociale Popoli di matrice latina e mediterranea. La linea neopatriota de Il Talebano ben si declina in senso identitario etnoregionalista ed etnofederalista; riteniamo che il concetto di etnoregionalismo abbia una sua dimensione universale e particolare, allo stesso tempo. Universale è l’esperienza di matria, particolare la sua narrazione. Dagli studi che ne scaturiscono dal confronto con autori di rilievo internazionale, viene alla ribalta una riflessione opportuna: sostenere una Italia federale ed un Europa confederale, è quanto mai  importante per non snaturare una storia millenaria. Questo il canovaccio che ci spinge con abnegazione ed impegno a dedicare focus su specifici contesti di studio etno-regionali come ad esempio gli studi sul territorio shardana: la Sardegna, terra di miti e leggende. La Sardegna è una terra ricca di magia, viva nella sua dimensione estiva nell’immaginario di un occidente liberista grasso e annoiato, ma al tempo stesso poco conosciuta nella sua chiave in una chiave di lettura più intima. L’isola tutta, quasi fosse un organismo vivente fatto di carne e sangue, con il suo popolo ha saputo tramutare le sue tante difficoltà in pregi notevoli. Lo si legge nella tensione emotiva del suo Popolo unito in eggregore nel tempo della Sa Sartiglia, festa propiziatoria identitaria dal sapore mistico, capace di unire l’isola in quell’unicum, quasi alchemico, dell’equilibrio cosmico fattispecie del Nirvana.

La sua sintesi? La Fierezza identitaria dell’appartenenza! Il Popolo Sardo, gli Shardana per essere precisi, hanno origini misteriose, direi, ancestrali! Essi hanno un pregio in particolare: dimostrano come le Radici dei Popoli Europei sono similari e trovano il loro punto di unione nel Mediterraneo quasi inteso come un magma primordiale. Di autori sardi, patrioti fieri  e professionisti identitari dell’Isola, la narrativa è feconda; noi de “Il Talebano” abbiamo scelto di ascoltare, in Silenzio, un patriota sardo, scrittore fecondo e conoscitore, innamorato, di questa bellissima terra: Lucio Decimo Todde, autore di “Storia d’amore e di guerra di un alpino: Un orologiaio sul Don”.

Ci vuole raccontare la sua esperienza di scrittore sardo?

Diciamo che fin da ragazzo, quando una sensibilità ancor adolescenziale mi portava a scrivere poesie e racconti brevi, il mio interesse letterario si concretizzava in una domanda: Perché tanto dolore e più in generale tanto male travaglia l’esistenza del genere umano? Dunque, già in quegli anni, avevo individuato nella letteratura il tentativo mio personale di suscitare nel lettore un afflato emozionale, una vera e propria catarsi affinché si generasse in lui una coscienza superiore tale da generare un uomo nuovo capace di operare nel mondo ponendo al vertice dei valori il fattore umano in primis. La mia letteratura, dunque, si potrebbe definire come comprensione e superamento del male. “Inventare racconti come sogni guaritori” con queste parole il critico letterario Fulvio Panzeri si espresse riguardo la mia letteratura nell’ambito di un concorso letterario indetto dal quotidiano L’Avvenire. Per poter operare in quest’ottica, secondo il mio punto di vista, si ha bisogno di due elementi essenziali, ossia le radici e le ali, per radici s’intende tutto ciò che si è ricevuto in eredità dalla comunità alla quale si appartiene. E per eredità si intende tutta quella ricchezza di usi e costumi, di tradizioni e linguaggio, di fattori storici, di valori umani, civili e intellettuali. E questo lo devo alla mia famiglia e alla comunità in cui sono cresciuto, osservando e ascoltando il dispiegarsi della cultura contadina, sapiente e saggia amministratrice della terra, nuragica nella sua interezza con il carico prezioso del suo fervore antico e dei suoi millenari insegnamenti sempre moderni. Le ali, invece, servono per volare lontano e incontrare altri popoli e questo è lo spirito giusto per costruire insieme benessere sociale. Le ali rappresentano la creatività e l’innovazione che, per me, pur sempre discendono da quello spirito atavico sardo che è stato il mio maestro di vita. La mia letteratura vuole essere ancor oggi un atto di forza che si ribella ai poteri dominanti, sotto qualsiasi forma, oppressivi sui cosiddetti popoli minori o tali considerati, sempre più spesso demonizzati e deprivati del loro status quo. Ma l’azione che la mia ars letteraria si propone non contempla un carattere dalle sfumature violente, tutt’altro, si dispiega come atto di intelligenza e umanità da condividere con tutta la comunità di appartenenza, poiché una società e un popolo istruito e consapevole del proprio destino non sarà mai sopraffatto.

Come interpreta, da profondo conoscitore della realtà locale sarda, il fenomeno del sardismo ovvero l’autonomismo-indipendentismo sardo in un rapporto con la realtà nazionale e sovranazionale? Non crede che accanto ai diritti umani bisogna parlare di diritti dei popoli?

Identità e territorio, vorrei cominciare da queste due parole che portano in sé significati e sistemi valoriali profondi; elementi indissolubili, imprescindibili l’uno dall’altro; armonico connubio dai profumi e dai sapori del bel tempo andato che richiamano alla mente la bellezza di una natura rispettata, ascoltata, poiché la natura ci parla come amava dire Hermann Hesse. Il territorio è la casa delle persone che lo abitano eppure credo, che non si abbiano grandi consapevolezze di questo aspetto in questo contesto storico in cui ci si dibatte molto spesso in un mondo virtuale, sempre più avvolti da questa rete globalizzata.

L’identità, invece, credo sia il senso stretto di appartenenza a quel determinato territorio (terra mea) e contempla memoria, usi e costumi, tradizioni che tuttavia non rimangono e non devono rimanere relegati nel passato in una dimensione solamente folcloristico museale, ma far parte di quello spirito evolutivo del presente e del futuro, devono sempre agire come forza attività che crei coesione sociale e proponga continuamente modelli di convivenza a misura d’uomo, poiché la felicità delle persone non si misura con il Pil sempre in fibrillazione nelle borse delle piazze economiche mondiali ma nel benessere comune di coloro che vivono in un determinato territorio. Territorio e identità, dunque, come microcosmo elettivo e fonte di sviluppo inteso in senso lato ossia sociale, ambientale, economico e pedagogico, affinché possa interagire con il macrocosmo globale da pari a pari. Questo assunto vale ancor di più nella nostra Sardegna sempre animata nei secoli passati da quel senso atavico di autogoverno sorretto dal carattere fortemente identitario. Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, con i Shardana, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli. La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnussa, Sandalia; oltre che Isola felice, Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia. La Sardegna è sempre stata acefala – la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio; elemento fondante della sua particolare organizzazione sociale è la lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di sapienze e di suoni, che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltre/senso.

E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano e di qualsivoglia tiranno.

Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque, ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto. Quella lingua che è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento. Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle proprie radici. Ma nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso e, spesso, censurato e falsificato, si tratta prima di tutto di ricostruirlo, di dissotterrarlo, di conoscerlo e in qualche modo, anche di inverarlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e dell’obliò. L’uomo contemporaneo, soprattutto nell’epoca della globalizzazione economica, della comunicazione planetaria in tempo reale e di Internet non può vivere senza una sua dimensione specifica, senza «radici», sia per ragioni psico-pedagogiche (un punto di riferimento certo dà sicurezza, consapevolezza di sé e fiducia nel proprio futuro) sia per motivi di ordine culturale. La comprensione del nuovo è sempre legata alla conoscenza critica della storia della società in cui si vive, alle tecniche di produzione, al senso comune, alle tradizioni, alla propria lingua. Altrimenti prevalgono solo processi di acculturazione imposti dal «centro», dalle grandi metropoli, dai poteri forti, arroganti ed egemonici che riducono le peculiarità etniche e linguistiche a espressione retorica». Occorre però concepire e tutelare lo “specifico individuale e collettivo” non come dicotomia ma in connessione con il generale, vivendo l’identità sarda con dignità e orgoglio ma senza etnocentrismi e senza attribuirgli un significato ideologico o di mito; identità non come dato statico e definitivo ma relativo, fluido e dinamico, da conquistare-riconquistare, costruire-ricostruire dialetticamente e autonomamente, adattandolo e sviluppandolo, quasi giorno per giorno. Occorre infatti leggere e interpretare l’Identità non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con «un restyling» concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga ciò che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Anzi, la visione puramente etnografica dell’identità, certifica la morte dell’identità stessa. Che fare? Direi lavorare con intelligenza, non lasciandosi trascinare nelle sabbie mobile del laissez-faire; ma noi tutti dobbiamo agire sapendo coniugare valori ambientali con esigenze economiche di sviluppo ma che si abbia cura, in primis, del territorio e della sua memoria identitaria. Non a caso il semiologo Jurij Michajlovič Lotman avvertiva: “La storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi.”

Paolo Guidone

1 Comment on LE INTERVISTE TALEBANE: LUCIO DECIMO TODDE

  1. Bellissimo articolo.

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