PASSANO I DECENNI, MA L’ IRAQ NON TROVA PACE
Il 10 ottobre 2021 si sono tenute le elezioni presidenziali in Iraq e, come spesso avviene, la notizia è stata riportata unicamente da osservatori specializzati (così specializzati da diventare di “nicchia”). Ad oggi, nonostante il voto sia stato espresso, l’Iraq si trova in una situazione di totale paralisi: il paese, infatti, non ha ancora un governo che rispecchi la ripartizione dei seggi.
Dallo scrutinio è emersa la sfiducia verso i partiti sciiti filo-iraniani: Nouri al Maliki, ex premier e capo della coalizione, è stato giudicato troppo vicino al potere degli ayatollah e questo ha fatto sì che il suo schieramento abbia ottenuto solamente 33 seggi (89 furono nel 2010 e 92 nel 2014, anni in cui il gruppo era sicuramente il più influente nel paese). Destino simile è toccato a Al Fatah (17 seggi) e Alleanza della Vittoria (4 seggi).
La vittoria è stata sicuramente raggiunta dal Movimento sadrista, anche questo è un partito sciita ma l’inclinazione nazionalista lo contraddistingue per le sue posizioni avverse alle ingerenze estere (in particolare Usa e Iran). Il partito è guidato da Muqtada al-Sadr, religioso ed ex ribelle che, dopo l’invasione statunitense post Saddam, capitanò la lotta armata. I sadristi sono riusciti ad ottenere 73 seggi.
Il problema principale emerso da queste elezioni è stata fin da subito la frattura creatasi tra i partiti riconducibili alla correnti sciite. Era auspicabile e auspicato dalle forze in campo che i gruppi con la stessa matrice ideologica puntassero a ricompattarsi; il Movimento sadrista ha accettato questa ipotesi, ma ha posto il veto al partito al-Maliki, considerato dai vincitori la causa dei mali che attanagliano il paese. Quanto descritto ha portato alla formazione di innaturali alleanze; il Movimento sadrista ha creato una coalizione (Salva la Patria) composta da: 73 deputati di al-Sadr, 51 sunniti (14 del gruppo al-Azim e 37 del partito Taqqadum), 31 deputati curdi (che fanno capo al Partito democratico del Kurdistan – Pdk) e alcuni turcomanni. Lo schieramento opposto vede riuniti i deputati “residuali ed esclusi” di natura sciita, 17 seggi curdi (Coalizione curda guidati dall’Unione patriottica del Kurdistan – Upk). La caotica situazione impedisce la formazione di un governo stabile con una maggioranza solida e ciò comporta che ogni decisione venga assunta per mezzo di trattative tra coalizioni. A complicare il quadro decisionale si pone anche la rappresentanza delle forze escluse a seguito delle votazioni: i partiti cristiani e le forze “indipendenti” nate a seguito delle contestazioni politiche del 2019.
Dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003 l’Iraq ha seguito, seppur senza convenzione scritta, l’esempio del Libano nel tentativo di garantire una rappresentatività a tutte le anime che compongono lo stato e ponendo così le basi affinché ogni gruppo potesse perorare i propri interessi. La vita politica del paese viene divisa tra le principali “etnie” e confessioni religiose che si spartiscono le cariche istituzionali: la Presidenza è prevista ai curdi (che dovrebbero poter convergere sulla scelta di un unico candidato, attualmente carica ricoperta dal presidente uscente Barham Salih – Upk), il Premier è scelto dagli sciiti (Mustafa al-Kadhimi, ad interim) e il Presidente del Parlamento di Baghdad (Mohammed al-Halbousi, partito Taqqadum) è indicato dalla minoranza sunnita. Quest’ultima sembra essere l’unica carica rilevante decisa dal nuovo governo.
L’aver nominato il presidente del Parlamento dà la possibilità all’organo legislativo di essere operativo e le prime decisioni varate sono: prezzi calmierati dei cereali a seguito del conflitto Russia-Ucraina e la criminalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele.
Lo scontro che si sta consumando tra le fazioni filo sciite ha reso impossibile la prosecuzione degli altri procedimenti politici: tra febbraio e maggio sono state più volte boicottate le votazioni atte a decidere il Premier e non si è mai raggiunto il quorum minimo previsto dalla Costituzione. La stessa situazione ha impedito di eleggere un Presidente della Repubblica dato che la rappresentanza curda si trova schierata in entrambe le coalizioni. Le trattative poste in essere dalla maggioranza non hanno mai portato a risultati concreti.
La situazione ha preso una piega inedita il 12 giugno: i 73 deputati sadristi hanno rassegnato in blocco le dimissioni e sono usciti dallo scenario politico. I “posti vacanti” sono stati riassegnati proporzionalmente alle altre confessioni-etnie, ma ciò ha fatto riemergere gli stessi disequilibri sorti nei mesi precedenti, portando di fatto ad un nuovo stallo.
La scelta del Movimento sadrista segue indubbiamente una strategia volta non solo a portare all’esasperazione gli avversari, ma anche all’assunzione di una maggiore credibilità politica. La promessa dei vincitori fatta in campagna elettorale è stata così mantenuta: non avrebbero mai accettato compromessi con l’elitè corrotta. Le alleanze strette all’interno del Parlamento non vengono poste in discussione e ciò fa sì che i sadristi abbiano comunque un’incisività; consapevoli di ciò i deputati sciiti filo-iraniani hanno voluto sottolineare come il parere di al-Sadr verrà comunque richiesto e tenuto in grande considerazione.
Il fatto che il principale partito eletto sia formalmente fuori dalla vita politica lascia pensare che si creeranno forti tensioni come già sta avvenendo: si è già verificato nei giorni scorsi un assalto al Parlamento, conclusosi con l’esortazione al ritorno alla normalità da parte di al-Sadr. La calma apparente e la veloce risoluzione di questa prima miccia non può essere sottovalutata, l’Iraq è un paese lacerato da guerre, inflazione, infiltrazioni jihadiste ed è sempre stato il “campo da gioco” di influenze diverse. Ad aggravare il quadro si pone la Turchia che con i suoi continui attacchi nei territori curdi rischia di esasperare una situazione che si pone già ai limiti della sopportabilità.
Arianne Ghersi
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