SEMPRE PIU’ CRISI E CONFLITTI IN AFRICA E MEDIORIENTE: LA “NATO ARABA” PUO’ NASCERE DAVVERO?
L’idea che potesse nascere una NATO araba non è certo “nuova”. Il principale spunto pratico lo si ebbe nel 2015 quando l’Arabia Saudita riuscì a convergere la preoccupazione di moltissimi stati angosciati dalle gesta dell’Isis, creando anche un’ “alleanza islamica anti Is”. A dicembre dello stesso anno Mohammed Bin Salman fece la sua prima apparizione pubblica in veste di principe ereditario per annunciare nel corso di una conferenza stampa la nascita di un’alleanza militare che avrebbe posto il proprio stato come capofila di un gruppo composto da 34 paesi a maggioranza islamica (nazioni mediorientali, nord africane e africane, tutte sunnite). Gli stati che aderirono a questo piano programmatico-militare furono: Bahrein, Bangladesh, Benin, Ciad, Costa d’Avorio, Comore, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Gabon, Gibuti, Giordania, Guinea, Kuwait, Libano, Libia, Malaysia, Mali, Maldive, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Pakistan, Palestina, Qatar, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Togo, Tunisia, Turchia, Yemen.
Inizialmente si era ipotizzato che questa coalizione nascesse in seguito all’esortazione statunitense che incitava i paesi dell’area ad intraprendere azioni concrete atte ad arginare le mire espansionistiche del Califfato. In realtà questa fu la risposta a quanto avvenuto con le cosiddette “Primavere Arabe”, alla destabilizzazione della Siria e al timore che l’influenza di Teheran potesse crescere.
L’Arabia Saudita aveva manifestato forme di insofferenza già nell’ottobre 2013 quando rinunciò al seggio spettante per turno presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sostenendo pubblicamente di considerare inefficace il predetto organismo. Le argomentazioni a sostegno di tale considerazione furono: l’incapacità di risolvere la spinosa questione che avversa da anni la Palestina ed Israele, l’abbandono di Assad da parte dell’occidente e le incongruenze manifestatesi nella gestione degli accordi con l’Iran sulla materia nucleare. Ciò che contraddistinse questo inizio come pessimo fu il contemporaneo inasprimento del conflitto contro gli Houthi in Yemen. Questi ultimi, infatti, non hanno mai celato i forti legami con Al Qaeda e in un momento di rinnovamento, hanno potuto conquistare ampie fasce di territorio nella zona meridionale del paese. L’Arabia Saudita accusò la comunità internazionale di considerare la minaccia yemenita come un conflitto di serie B.
La creazione di una NATO araba non ricevette mai un reale appoggio da parte degli Usa, anche se già nel periodo dell’amministrazione Obama ci furono i primi segnali della volontà di coinvolgere maggiormente gli attori regionali nella gestione delle crisi locali. Questa intenzione, però, non fu all’epoca esplicitata per paura di alterare gli equilibri con l’Iran, impegnato nelle trattative con il paese a stelle e strisce per l’approvazione del piano nucleare. Fu Trump nel 2015, nel corso di un viaggio di stato, a profondere elogi verso tale iniziativa e si iniziò a ipotizzare la creazione di un’Alleanza Strategica per il Medio Oriente (MESA). Un ruolo determinante lo ebbe Jared Kushner (genero del presidente, consigliere della Casa Bianca) a cui fu dato mandato di supervisionare tutti gli accordi internazionali, anche a costo di delegittimare o almeno mortificare le agenzie preposte.
Ovviamente Trump benedì l’intuizione soprattutto per il suo tornaconto politico-economico. Tale presa di posizione avrebbe portato alla riaffermazione della leadership statunitense nell’area, avrebbe “costretto” gli attori del medioriente a farsi carico degli impegni economici e militari per rendere operativo il progetto e, ultimo ma non ultimo, sarebbe stata indispensabile per molti stati una corsa agli armamenti che, a rigor di logica, sarebbero stati venduti dagli Usa che si sarebbero garantiti commissioni ingenti.
Nel corso del summit NATO tenutosi a Madrid dal 28 al 30 giugno è emersa un’importante assunzione di consapevolezza. Nato Strategic Concept scrive: “I conflitti, la fragilità e l’instabilità in Africa e in Medio Oriente hanno un impatto diretto sulla nostra sicurezza e su quella dei nostri partner” e, volendo riaffermare quanto già espresso nel 2010 viene dichiarato: “Il vicinato meridionale della Nato, in particolare le regioni del Medio Oriente, del Nord Africa e del Sahel, deve affrontare sfide interconnesse di sicurezza, demografiche, economiche e politiche. Queste sono aggravate dall’impatto del cambiamento climatico, dalla fragilità delle istituzioni, dalle emergenze sanitarie e dall’insicurezza alimentare. Questa situazione costituisce un terreno fertile per la proliferazione di gruppi armati non statali, comprese le organizzazioni terroristiche. Inoltre, consente interferenze destabilizzanti e coercitive da parte di concorrenti strategici”.
A conferma dell’importanza di queste dichiarazioni è fondamentale ricordare quanto avvenuto ad Amman nel corso della visita del principe ereditario saudita: nel corso di un’intervista concessa alla CNBC, Re Abdullah II ha sollevato l’ipotesi di un’integrazione militare della regione e ha espresso parole favorevoli alla creazione di una NATO in versione mediorientale.
Il problema relativo alla creazione di un così ambizioso progetto rimane il medesimo degli anni passati: i paesi coinvolti non riescono a definire obiettivi condivisibili, neanche legati alla sicurezza e non riescono ad individuare dei nemici comuni.
Negli ultimi anni due fattori discriminanti sono scemati o si sono attenuati: il primo riguarda Israele che, grazie al riconoscimento ottenuto per mezzo degli Accordi di Abramo, si trova di fatto coinvolto in una nuova alleanza e questo porta le Forze di Difesa Israeliana a dover profondere maggiori sforzi nell’assicurare sicurezza nella regione; in secondo luogo l’Iran ha ormai “svelato” il proprio volto e il pericolo rappresentato da questo stato è ormai evidente. Non bisogna inoltre sottovalutare il cambio di strategia di alcuni paesi: il Sultanato dell’Oman e l’Emirato del Qatar intrattengono buoni rapporti con l’Iran, il Kuwait si muove con circospezione, la diffidenza delle monarchie saudita ed emiratina non è scemata (il caso Yemen è ancora una parentesi apertissima). Nonostante ciò, al contrario di quanto avvenuto in passato, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno saputo conquistarsi un ruolo come interlocutori di indubbio spicco e ciò ha fatto sì che ciò che prima era contrastato con decisione oggi viene discusso con attenzione secondo le buone usanze della diplomazia. Un ulteriore fattore di cambiamento è determinato dalla presidenza Usa: l’insediamento di Biden ha fatto sì che i rapporti con il Medio Oriente tornassero ad essere freddi e formali e ciò ha reso possibile che si sviluppassero nuovi spazi di indipendenza.
Il ministro della Difesa israeliano si è espresso favorevolmente verso questo tipo di intesa e l’ha definita “Middel East Air Defense Alliance” (MEAD).
Secondo il Wall Street Journal, a marzo si sarebbe tenuta una riunione segreta organizzata dagli Usa tra alti ufficiali israeliani e di alcuni Paesi arabi (si presume fossero funzionari militari provenienti da Arabia Saudita, Bahrein, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Giordania e Qatar) per decidere una strategia comune atta a contrastare la sempre maggior influenza del paese degli ayatollah.
In conclusione la domanda che potrebbe sorgere spontanea è: come si comporterebbe la Turchia? Finché il progetto sarà finalizzato ad una mera cooperazione tecnica nessun problema dovrebbe sorgere. Nell’eventualità però che nasca la cosiddetta NATO araba, Erdoğan cosa potrebbe scegliere? Converrebbe rimanere solidale con i paesi “culturalmente” occidentali o preferirebbe entrare nell’orbita dei paesi più etnologicamente limitrofi? Sarebbe possibile essere parte delle “due NATO”? In caso la Turchia abbandonasse la vecchia strada per la nuova si consumerebbe l’ennesimo “schiaffo morale” verso i curdi che sono stati materia di “contrattazione” da parte del paese anatolico ai fini dell’accettazione nella NATO di Svezia e Finlandia.
Arianne Ghersi
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