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SCONTRI POCO “IDEOLOGICI” E FINTE GUERRE “SANTE”. UNA RIFLESSIONE SUI NUOVI SCENARI DI CONFLITTO

Esistono realtà che tutti coloro dotati di buon senso conoscono: è quasi impossibile che uno stato o una qualsiasi autorità “muova” le proprie pedine per un mero motivo ideologico.

Alla luce di questa sconcertante banalità, è il caso di ricordare come il 2021 sia stato l’anno infausto per molti governi traballanti; abbiamo infatti assistito a colpi di stato in Mali, Ciad, Sudan, Myanmar, Guinea e continuiamo ad assistere a stravolgimenti (in alcuni casi ascrivibili al “passo prima” dell’insanabile frattura) in Nigeria, Sudan ed Etiopia.

Il Covid ha ormai talmente contagiato le menti di molti da assimilarlo ad un “mistero della fede”: questa asserzione non vuole essere minimamente blasfema, ma l’analogia serve a far riflettere su come sia ormai normale incolpare una pandemia se scenari sociali ed economici sfuggono al controllo, quasi come avviene in molte religioni con il volere divino.

L’altrettanto sconcertante banalità è che sembra sia più importante comunicare un’overdose di dati sanitari (utili a medici e protezione civile per assumere decisioni, ma non al popolo che subisce impotente), rispetto al fornire una concreta valutazione del mondo che ci circonda.

Per troppi anni è stata fomentata una narrativa secondo cui manipoli di barbuti armati di forconi, o meglio kalashnikov, avrebbero avuto come priorità esistenziale quella di moralizzare i poveri reietti che non assecondavano i deliri legati alla lunghezza di un abito.

Indubbiamente ciò che ci mostrano i notiziari è prova di uno scontro di modelli (non ascrivibile allo scontro di civiltà teorizzato da Samuel Huntington): da un lato troviamo le democrazie, dall’altro le autocrazie (termine decisamente più appropriato di dittatura nel contesto moderno). Oggi guardando un semplice planisfero possiamo fare chiarezza: il mondo sta implodendo davanti alla difficoltà nel sostenere ritmi di crescita non proporzionati alle materie prime necessarie. Con questo non mi voglio unire a certi “talebanismi” ecologisti, ma unicamente guardare alla realtà che ci circonda.

Nelle ultime ore siamo “bombardati” da notizie circa la situazione politica in Kazakistan e le testate più “oneste” hanno posto in parallelo la crisi con la fornitura di gas. Purtroppo, però, questo non basta: è vero che la Russia è subita scesa in campo schierando i propri militari, ma un’amnesia temporanea ha fatto dimenticare il ruolo della Cina.

Il Kazakistan ha un ruolo rilevante nel mercato delle materie prime nucleari, infatti produce il 40% di uranio mondiale grazie all’azienda statale Kazatomprom. Dal momento dell’inizio degli scontri, il prezzo della componente è aumentato dell’8%. Questo aspetto è di prioritario interesse per la Cina che sta costruendo diciassette centrali nucleari ed ha annunciato nel corso della primavera del 2021 di aver stipulato un accordo con l’azienda kazaka. È indubbio, quindi, che la Cina ha ed avrà prioritario interesse nella risoluzione di questa crisi statale.

La crisi inerente alla scarsità di materie prime è riconducibile anche al Nord Africa e al Medio Oriente: infatti qui risiede il 6% della popolazione mondiale a fronte di una capacità idrica dell’1%. È dunque ipocrita supporre che questo incisivo dato non abbia conseguenze sul tasso di natalità e sui processi migratori; ancora più sciocco è sottovalutare l’importanza della geopolitica in tal senso. È stato stipulato un importante accordo tra Giordania, Emirati Arabi Uniti e Israele a novembre: il regno hashemita potrà avvalersi di circa 200 milioni di metri cubi di acqua desalinizzata dello stato ebraico, in cambio fornirà energia solare prodotta nei suoi territori. Questo traguardo è stato raggiunto sotto l’egida degli Emirati Arabi Uniti che, negli ultimi mesi, sta acquisendo una notevolissima autorevolezza diplomatica.

Purtroppo, però, questi accordi non sono in grado di sopperire al fabbisogno idrico dell’area MENA (Middle East and North Africa): l’aumento demografico e la riduzione delle risorse idriche hanno portato al dimezzamento della disponibilità dei metri cubi stimati procapite. Dati provenienti da enti specializzati denunciano come tra i venticinque paesi sottoposti a tale stress, sedici siano parte di questa zona geografica. Secondo le stima della World Bank, nel 2050 la scarsità idrica arriverà ad incidere dal 6% fino al 14% sul Pil dei paesi coinvolti. Ad aggravare la situazione è il dato secondo cui l’82% delle acque reflue non viene lavorato e riutilizzato.

Oltre ai processi legati al risanamento degli equilibri climatici, una delle concrete possibilità sarà la sempre più massiccia creazione di impianti di dissalazione. Ad essa sarà possibile associare una nuova guerra economica per garantirsi accordi vantaggiosi per la prestazione del servizio. L’approvvigionamento d’acqua, bene primario per il pianeta e per qualsiasi essere vivente, sarà causa scatenante di nuovi malcelati scontri in chiave ideologica?

Arianne Ghersi

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