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DI QUESTA DESTRA CONFUSA NON SAPPIAMO CHE FARCENE

L’articolo che presentiamo di seguito a firma del giornalista Mario de Fazio rappresenta un grande problema del paese Italia: la confusione culturale della Destra che vorrebbe governare il paese.Spesso, se non sempre, quando si parla di governare si intende “amministrare”, al contrario il governo ha necessità più complesse del gestire l’economia e l’amministrazione, ci deve essere una visione ben precisa di quale Italia si vuole (tentare) di costruire in un mondo sempre più piccolo.
Nell’articolo si fa un esempio che fa ben comprendere la situazione in cui viviamo: come si può essere contro l’immigrazione e allo stesso tempo difendere e promuovere politiche di tipo capitalista?
Le contraddizioni del cdx sono evidenti e la mancanza di cultura aumenta le difficoltà, tutto viene interpretato in una logica di gestione e senza una visione di sviluppo per il futuro, nessuno propone un modello di paese differente da quello in cui viviamo, paese nona potenza al mondo che se fosse governato (si, è inutile girarci attorno, è la verità e noi siamo il nostro problema) da tedeschi o anglosassoni saremmo tra le 4 potenze  economiche più ricche di tutto il globo.
Male amministrati da sempre, senza una proiezione verso il futuro, pronti a subire decisioni imposte da altri paesi, burocrazia che blocca ogni scelta, politici senza una preparazione politica come culturale…

Fabrizio Fratus

Bisognerebbe avere davvero il coraggio, come scrisse anni fa Stenio Solinas, di “farla finita con la destra”. Con un certo tipo di destra, almeno: quella bigotta, codina, reazionaria, perbenista, borghese. Quella liberale, soprattutto, scendiletto del capitalismo transnazionale e naturale alleata di una sinistra culturale con cui celebra da almeno un trentennio un matrimonio tutt’altro che innaturale, il cui frutto incestuoso è l’unica ideologia dominante, il mondialismo.Se invece la destra può ancora interpretare una rivoluzione conservatrice dando corpo e sostanza alla troppo spesso aleatoria categoria del sovranismo, il tempo dei fraintendimenti è scaduto: o si imbocca la strada di una reale contrapposizione al mondialismo capitalista o l’equivoco si trasforma da ennesima occasione persa in farsa.

L’equivoco del termine “destra”, per catalogare alcuni tra gli spunti più attuali che possono arrivare a un anticapitalismo moderno, sarebbe questione troppo annosa da affrontare in un singolo scritto. Chi vuole intendere, intenderà.Di sicuro non si parte da zero. Anzi, la strada è tracciata da tempo, basterebbe solo seguirla con coraggio e capacità di contestualizzare idee che sono lascito prezioso di alcune tra le migliori menti europee. A cominciare dalla mirabile sintesi di Berto Ricci, tanto scomodo e a lungo ignorato per la carica eversiva – per certa destra liberale e borghese – della declinazione sociale che diede al suo impegno intellettuale durante il regime fascista. Non a caso l’intellettuale fiorentino si attirò gli strali di gerarchi e gerarchetti per aver messo in dubbio due capisaldi dell’ideologia liberale: l’intangibilità della proprietà privata e la libera iniziativa che degenera in materialismo economicista, elementi che spesso non tengono in alcun conto il bene comune e non riconoscono il ruolo dello Stato quale arbitro degli interessi collettivi di una comunità.

«Non fornicare col capitalismo mondiale ma saperlo avere contro di sé”, scriveva Ricci nel 1937, al tempo in cui il fascismo in cui credeva il giornalista toscano aveva dinanzi la sfida del primato italiano, quella sintesi di universalità e particolarismo che rifugge tanto il nazionalismo questurino che l’internazionalismo giacobino. In una fase in cui, giustamente, si è individuato nella verticale dicotomia tra “alto” e basso” uno spartiacque molto più efficace per leggere la realtà rispetto alla contrapposizione orizzontale tra destra e sinistra, la lezione di Ricci è attuale più che mai. Il direttore de L’Universale, chiarendo che «l’antitesi fascismo-capitalismo è la massima, e quella da cui tutte le altre derivano», aveva anche individuato come «nell’odio dei padroni del mondo contro l’Italia, dei ricchi contro il fascismo, odio che bisogna augurarci sempre più accanito e irriducibile, sta un’arma preziosa per noi». Quell’arma era – e può tornare a essere in forme diverse – la capacità di essere «rivoluzione e non Vandea, popolo e non casta, lavoro e non denaro».

Concetti che son affluenti di mille altri rivoli, nel pensiero di autori che, per comodità, potrebbero ritrovarsi nel fiume carsico di una destra comunitaria in cui l’essere patrioti non è – non può essere – disgiunto da un’insopprimibile ansia di giustizia sociale: dagli echi dannunziani della Carta del Carnaro ai tentativi corporativisti e socializzatori, dall’etica del lavoro gentiliana fino alle diverse forme immaginate di socialismo prussiano. Anche nella cultura anglosassone, come ha ben mostrato un recente saggio di Giorgio Galli e Luca Gallesi edito da Oaks, c’è un corposo filone di pensiero anticapitalista di destra: dalle suggestioni di Dickens e Carlyle alle teorie di Brooks Adams e Douglas per finire a Ezra Pound, in cui la poesia sincretica di una civiltà si fonde con la lotta senza quartiere allo sfruttamento capitalistico.  Come dimenticare poi la lezione – ancora troppo poco ascoltata – della nouvelle droite francese, recepita e sviluppata in Italia dalla Nuova destra di Marco Tarchi. Negli scritti di quel viandante dello spirito che resta Alain de Benoist, c’è la migliore disanima filosofica, politica ed economica delle storture intrinseche alla logica del capitalismo: l’utilitarismo e l’individualismo come necessari corollari della logica liberista, che sottomettono ogni anelito al bene comune e ai legami identitari di una comunità; l’assenza di limite consustanziale alla forma capitale, che pervade ogni singolo aspetto della società abbattendo qualsivoglia retaggio o confine, frontiera fisica o etica; la liberta elevata a egoismo, e l’interesse a mancanza di scrupoli. E, ancora, la confutazione di postulati spacciati per verità incontrovertibili, come la presunta provvidenzialità della “mano invisibile” del mercato o la capacità autoregolatoria degli scambi rispetto ai reciproci interessi degli individui. «Riducendo tutti i fatti sociali a un universo di cose misurabili – scrive de Benoist a proposito del liberalismo nel suo ultimo lavoro uscito in Italia per Arianna editrice, Critica del liberalismo – esso trasforma in definitiva gli uomini stessi in cose: cose sostituibili e interscambiabili rispetto al denaro». Negli scritti del filosofo francese è poi evidente il vicolo cieco dei tentativi, da parte conservatrice, di attenuare gli esiti di un modello di sviluppo che si fa antropologia, e che ha nelle sue premesse filosofiche i germi di quel processo uniformante e atomizzante che distrugge proprio quei legami che qualche “liberal-conservatore” vorrebbe difendere.

Una «tragica incoerenza» che non tiene conto della logica stessa del capitalismo, che si riassume nella necessità di considerare «tutto ciò che ostacola l’estensione indefinita dello scambio mercantile un catenaccio da far saltare, un limite da sopprimere, si tratti della decisione politica, della frontiera territoriale, del giudizio morale che induce alla misura o della tradizione culturale che rende scettici nei confronti della novità». Non c’è tema decisivo per il futuro dell’Italia e dei popoli d’Europa che non passi da una lotta serrata all’attuale modello di sviluppo. Ogni sovranismo che non ne tenga conto cade in uno strabismo destinato alla sconfitta.

Come si può criticare l’immigrazione indiscriminata se non si riconosce che essa è resa possibile dalla logica capitalista che pretende la libera circolazione di uomini e merci, e resa necessaria dalla volontà di abbassare i diritti sociali scatenando una folle e selvaggia competizione al ribasso per ridurre il costo del lavoro? E come avanzare dubbi sugli attentati alla famiglia se non si rintraccia nell’assenza di limite, nella mortificazione costante dell’elemento naturale, uno dei dogmi del politicamente corretto figlio del sistema liberista? Per non parlare della difesa delle differenze, dei particolarismi, delle tradizioni locali – nella religione come nel cibo, fino ai rapporti sociali e ai legami tra uomo e donna – messi costantemente sotto assedio da un modello che livella le identità producendo solitudine, egoismo e insoddisfazione. Persino l’ambientalismo, al di là delle mode costruite in laboratorio, è una battaglia che necessità di essere condotta partendo da due elementi: la sacralità della natura, eredità ricevuta e da tramandare, e l’attentato che, contro di essa, porta avanti la dismisura di un modello di sviluppo che si vorrebbe illimitato. 

Il nemico della destra sovranista è uno soltanto, sempre lo stesso. Basta riconoscerlo.

Mario De Faziogiornalista

pubblicato su Il Guastatore

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