LA REPUBBLICA DEI VOLTAGABBANA
Una storia tipicamente italiana..
Quando un politico cambia radicalmente idea e anche partito di appartenenza può essere definito allo stesso tempo come un “voltagabbana”, oppure una persona “responsabile” o un “poltronista”.
Voltagabbana sarà chiamato dai suoi ex amici o dagli avversari più accaniti; responsabile dai nuovi alleati e da coloro che hanno sostenuto tale svolta; poltronista, invece, è il termine usato da un osservatore neutrale che si limita a valutare realisticamente che la motivazione della scelta sia unicamente quella di mantenere un seggio parlamentare o una poltrona con relativi stipendi, prebende e vitalizi. Infine, ci sarebbe anche il termine più radicale di “traditore”, accusa che però può essere rivolta soprattutto dagli elettori a chi ha rinnegato le promesse o la linea politica originali.
Questa “effervescenza” politica, tipicamente italiana, è dovuta al fatto che la nostra Costituzione non prevede il vincolo di mandato, per cui chiunque viene eletto (dal consiglio municipale al Parlamento) non è obbligato a restare né nello schieramento né nel partito che lo ha eletto per cui è liberissimo di cambiare bandiera come vuole.
PRIMA REPUBBLICA: più scissioni che tradimenti
Nella Prima Repubblica questi “spostamenti” erano più rari anche a causa della legge elettorale proporzionale con preferenze che legavano strettamente ogni parlamentare al suo elettorato. Inoltre, la contrapposizione ideologica era molto più forte. Ciononostante, non sono però mancati i passaggi di deputati dalla Dc al Pci, come il cattolico Mario Melloni poi divenuto il “Fortebraccio”, polemista del quotidiano comunista l’Unità. Dopo l’invasione dell’Ungheria, nel 1956, ma anche prima (famoso il caso di Valdo Magnani e Aldo Cucchi che nel 1951 lasciarono il Pci contestando la linea filosovietica di Togliatti) anche qualche comunista cambiò bandiera. Di loro Togliatti aveva grande rispetto, tanto che osservò «anche su un cavallo da corsa si possono trovare 2 o 3 pidocchi».
Un discorso a parte meritano le scissioni legate strettamente a motivi politici: i socialdemocratici di Saragat dal Psi filo-comunista nel 1947; il Psiup dal Psi per non votare il governo di centrosinistra nel 1964; i comunisti eretici de Il Manifesto dal Pci. Analoghe le scissioni a destra, come l’uscita del Partito monarchico popolare di Achille Lauro verso il MSI e la scissione di Democrazia Nazionale dal Msi-Dn nel 1976.
Nella Prima Repubblica il gioco dei “due forni” (oggi evocato per il Movimento 5 stelle che tratta indistintamente con il Pd e con la Lega, oppure per Salvini che governa con il M5S a Roma e il centrodestra nelle regioni) lo faceva soprattutto il Partito Socialista, che governava l’Italia con la Dc in una maggioranza di centrosinistra, mentre in regioni, province e comuni spesso partecipava alle “giunte rosse” con il Pci.
La Prima Repubblica è anche quella delle “convergenze parallele” di Aldo Moro, per spiegare che partiti opposti come Dc e Pci potevano, però, trovare motivi di unione o, meglio, interessi comuni. Dopo le elezioni del 1976 si arrivò al “compromesso storico” e al governo di “solidarietà nazionale” (preceduto da un “governo della non sfiducia” che si reggeva sulle astensioni) che ottenne la fiducia proprio il giorno del sequestro di Moro e del massacro della sua scorta da parte delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978.
Il governo durò fino al 1979, seguito da elezioni anticipate che videro la sconfitta del Pci, punito dai suoi elettori che si erano sentiti traditi dalla partecipazione ad un governo con il nemico di sempre, la Dc senza riuscire ad incidere sulla realtà politica nazionale.
Poi, fino al 1993, si sono succeduti solo governi di centrosinistra a guida Dc o Craxi o Spadolini, negli anni del riflusso che diventarono quelli dell’Italia “da bere” e, quindi, inevitabilmente finirono con Tangentopoli.
SECONDA REPUBBLICA: l’era dei “ribaltoni”
La definizione di Seconda Repubblica è nata con la legge elettorale maggioritaria e dal prevalere delle leadership sui partiti (Berlusconi da una parte, Prodi dall’altra). È una fase ricca di ribaltoni (cambiamenti di rotta senza passare dalle elezioni) che, regolarmente, portano al governo la fazione sconfitta dalle elezioni.
Il primo ribaltone avviene nel novembre-dicembre 1994 con Bossi (Lega) che si lascia incantare dal Pds di D’Alema e dal Ppi di Buttiglione e molla il governo Berlusconi. Nel 1995 nasce così il “governo tecnico” a guida Dini appoggiato da una maggioranza Lega-centrosinistra.
Alle elezioni del 1996 vince l’Ulivo, il centrosinistra di Romano Prodi (che prende meno voti rispetto al centrodestra, ma conquista più collegi)”. Decisiva è la “desistenza” (altra invenzione italiana) di Rifondazione Comunista, la stessa che, dopo due anni, il 9 ottobre 1998, nega l’appoggio esterno al governo Prodi e lo fa cadere.
Il 21 ottobre entra in carica il governo D’Alema che ottiene la maggioranza grazie ala prima pattuglia di “voltagabbana”: parlamentari eletti nel centrodestra guidati da Clemente Mastella e da Francesco Cossiga che costituiscono l’Udr per appoggiare la sinistra. Nel dicembre 1999 arriva il governo D’Alema II che a sorpresa, nomina sottosegretario alla Difesa un ex missino (Romano Misserville) passato all’Udr. La legislatura si conclude con il governo Amato (dal 25 aprile 2000 al posto di D’Alema dimesso dopo la sconfitta alle Regionali) appoggiato dalla stessa maggioranza.
Alle elezioni del 2001 il centrodestra rivince nettamente e, per tutta la legislatura, non ci sono grandi problemi per Berlusconi salvo le frizioni con Pierferdinando Casini presidente della Camera e con Marco Follini leader dell’Udc per cui, dopo le regionali del 2005, è costretto a varare un rimpasto stabilendo comunque il record di durata per un governo italiano: ben 1.412 giorni (dall’11 giugno 2001 al 23 aprile 2005).
Non è un aspetto secondario, perché vuol dire che i parlamentari (sia alla Camera che al Senato) sono “nominati” dal segretario che fa le liste e non scelti con le preferenze dai cittadini. Così, livello generale della classe politica si abbassa, il rapporto con il territorio e gli elettori diventa inesistente e, di conseguenza, i parlamentari sono sempre più liberi di passare da un partito all’altro, da uno schieramento all’altro senza il minimo problema.
( continua )
Federico Gennaccari per orwell.live
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