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LA SCALATA AL PD DI CUI TUTTI SI VERGOGNANO

Minimo comun denominatore per gli aspiranti alla segreteria di partito sembra essere la rinuncia a qualsiasi accostamento con lo stesso

Il prossimo 3 marzo, a un anno delle elezioni politiche cha hanno stravolto il panorama politico italiano, si terranno le primarie del Partito Democratico per l’elezione del nuovo Segretario.

In seguito al voto degli iscritti i tre a contendersi la guida dei democratici saranno Nicola Zingaretti, Maurizio Martina e Roberto Giachetti.

Le ultime elezioni politiche hanno segnato probabilmente un ribaltamento della prospettiva politica del nostro paese, chiudendo la fase della Seconda Repubblica ed aprendone una nuova di cui si fatica ancora ad intravedere il punto di equilibrio. In ogni caso uno dei pochi punti fermi su cui l’analisi politica sembra uniformemente concordare è l’evidenza di come il Partito Democratico sia il principale travolto da questo tsunami politico e sistemico, avendo subito la peggiore sconfitta elettorale della Sinistra nell’Italia Repubblicana e stagnando in una crisi di identità dalle radici sempre più profonde secondo una tendenza che pare impossibile invertire almeno nel breve periodo. Oggi il Partito Democratico fra la popolazione è la principale rappresentazione del fallimento degli ultimi 25 anni della politica italiana, di una classe dirigente che ha perso il contatto con la realtà, di una globalizzazione che porta avanti il progresso lasciando indietro il benessere delle masse e di un’ Europa che da sogno è divenuta incubo. Non è un caso che Matteo Renzi in seguito al voto abbia sempre più puntato nella sua comunicazione su una distanza quasi glaciale rispetto al partito di cui è ancora azionista di maggioranza, non è un caso che Zingaretti, favorito per la Segreteria, abbia omesso il simbolo del PD dai suoi manifesti elettorali e non è un caso che progetti trasversali come “Siamo Europei” di Carlo Calenda ottengano endorsement sempre più trasversali. Oggi ed almeno nel medio termine il simbolo del PD, al di fuori delle roccaforti della Cerchia dei Bastioni e dei Parioli, non rappresenta più un’alternativa sulla scheda elettorale ed è scivolato in un trend che non rientra nella logica dell’alternanza ma che affonda in un’aversione tanto radicata nelle coscienze delle persone da doversi intendere come abbanodono permanente e non come delusione transitoria.

Di tutti questi fattori le vecchie e le nuove classi dirigenti democratiche che si propongono sembrano non averne interiorizzato nessuno. Partendo da un Giachetti dall’anima radicale, strenuo sostenitore del Renzismo, che rivendica le scelte di governo che hanno portato il suo partito dal 40 al 18%, passando per una Boschi che boccia il reddito di cittadinanza con l’epiteto “una vita in vacanza” e finendo con un Martina che ha come sua unica arma la retorica della difesa dello status quo e del sistema contro la minaccia antidemocratica portata dalla maggioranza. Il Partito Democratico doveva essere la grande anima socialista e riformista del nostro sistema politico, è divenuto molto più simile ai Democratici americani che altro.

Zingaretti, che come detto è il favorito di queste primarie, sembra porsi come l’elemento di maggior rottura rispetto alla recente linea. Ma bisogna essere cauti nel descrivere il Presidente della Regione Lazio come un rivoluzionario, più corretto semmai è guardare al fratello del Commissario Montalbano come ad un restauratore della peggior specie. Archiviata l’epoca della, più retorica che nei fatti, “rottomazione” il progetto zingarettiano sembra strizzare l’occhio ai bersaniani di Articolo 1, ai D’Alema e alle vecchie anime disperse per dar vita a un PDS 2.0. Non quindi un’ inversione di tendenza che guarda al futuro come quella che Corbyn ha dato ai laburisti inglesi ma un ritorno al futuro che si preannuncia fallimentare in una fase politica di frenetica ricerca del nuovo come forse si era vista solo ai tempi di Tangentopoli.

Martina è invece un uomo strabordante nel suo essere insipido. Di questi mesi da Segretario Reggente non verrà ricordata una parola, un gesto che non solo abbia segnato una presa di coscienza ma che sia stato degno di nota e atto a parlare a un popolo fuggito in massa negli ultimi anni. Martina persevera nella fallimentare retorica comunicativa renziana senza avere lo spessore e il carattere da showman del senatore toscano, continuando a porsi esclusivamente come argine contro chi vuole cambiare un sistema che, forse non si è accorto, la maggioranza degli italiani non vuole più. Porta avanti non una difesa dell’Europa vincolata ad un cambio di rotta ma una strenua difesa dell’Occidente globalizzato come l’abbiamo conosciuto in questi anni, non una critica nel merito alla strutturazione del reddito di cittadinanza ma una avversione aprioristica, quasi ideologica a questo, che mette in risalto tutte le contraddizioni della Sinistra contemporanea.

Infine un passaggio meritano sicuramente due attori non protagonisti di queste primarie ma che si muovono fra la pochezza di queste macerie come coloro che sono veramente destinati a tirare i fili.

Matteo Renzi che si disinteressa all’apparenza della sua comunicazione del PD, tanto da far scomparire dai sui tweet qualsiasi riferimento al partito che l’ha eletto in Senato, salvo poi essere ancora in grado di interrompere le trattative politiche per la formazione di un governo con i 5 stelle attraverso una comparsata televisiva e di dettare l’agenda del partito tramite una dichiarazione. In questi mesi nel dibattito interno alla Sinistra sembra tenere banco più che un’analisi della scofitta una disquisizione sulle prospettive di una scissione renziana di impronta macroniana. Forse il problema risiede tutto in questo passaggio, la volontà di rompere con il passato senza avere all’interno lo spessore di un’alternativa.

Dall’altra parte Carlo Calenda e il progetto di una lista trasversale, di un fronte repubblicano vasto e vario contro i populisti: “Siamo Europei”. Come se si potesse ricucire la frattura con le classi più deboli tradite dalla globalizzaione tanto deificata dal PD con un ex montezemoliano, iscrittosi al PD all’indomani della sconfitta esclusivamente nella speranza di trovare uno spazio da salvatore della patria. Calenda è un furbo che prova ad inserirsi confidando nel paradigma che dove vi è un vuoto questo deve sempre essere riempito, rischiando però di rimanere impantato in un gioco delle parti all’insegna di una paralisi tossica che mira solo al controllo di un corpo in putrefazione.

La domanda che ci sovviene è allora se il PD abbia ancora uno spazio nella politica italiana o se sia destinato ad una più o meno lenta agonia.

Abbiamo prima delinato uno scenario politico di passaggio in cui si è aperta una rottura senza che si veda  ancora il punto di equilibrio. Il 2018 è come il 1992, senza che ancora si intaveda il 1994. Ma in questo governo inedito quello che è certo è che l’opposizione è a Palazzio Chigi e non nelle aule parlamentari. 5 Stelle e Lega sono vicendevolmente alleati e oppositori a seconda dei temi.

E se di delineasse un nuovo bipolarismo post-ideologico di sicuro la vera Sinistra che guarda ai temi sociali e ai più deboli non potrebbe più essere rappresentata dal Partito Democratico.

Carlo Novero

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