Filosofia della storia e “logica tragica”. A cento anni da Il tramonto dell’Occidente
1918-2018. Il centenario della Grande Guerra rivela anche altre coincidenze significative. Non da ultimo, assistiamo a una ricorrenza fondamentale, che dovrebbe condurre a un ripensamento anti-mainstream della contemporaneità occidentale: i cento anni della pubblicazione de Il tramonto dell’Occidente, il capolavoro del filosofo tedesco Oswald Spengler (1880-1936).
È interessante come le sorti del profeta del crollo dell’identità europea siano direttamente correlate alla sua eccentrica singolarità: quella di una vox clamantis nel deserto del nichilismo moderno. Eppure la sua figura statuaria, faustiana, per usare un’espressione a lui cara, si erge – non più così solitaria – in una comunità di spiriti magni che ha vissuto con intensità le tempeste d’acciaio della Germania d’inizio Novecento, per muoversi nei crinali del Secolo Breve secondo direttive inattuali e originali (tali in quanto direttamente abbeverantesi all’Origine): il movimento della Rivoluzione Conservatrice (Konservative Revolution), secondo l’ormai storica definizione di Armin Mohler. Con i fratelli Jünger, Carl Schmitt, Werner Sombart, Ernst Niekisch – solo per citare i più celebri – Spengler condivise aspirazioni e sensibilità; con loro condusse un assalto vitale ed elementare al futuro facendosi insieme carico della Tradizione, il tradere l’essere nella trasformazione metamorfica delle forme.
Grazie a questa lente ermeneutica, nella declinazione del “vigoroso pessimismo” che è il marchio peculiare della sua “logica tragica”, Spengler ha studiato la storia mondiale individuandovi una pluralità di civiltà che, nel sistema del Tramonto, seguono uno sviluppo di matrice organica: nascono, crescono e muoiono, come le piante. Il loro sviluppo segue quello delle rispettive Urformen, le “forme originarie” di goethiana memoria: la teoria metamorfica viene traslata dalla biologia alla storia. Eppure, la filosofia della storia di Spengler non è affatto materialista. Rifugge piuttosto le spiegazioni meccaniciste e deterministiche, prediligendo una visione stratificata: qui l’immanenza incorpora la trascendenza, la storia diventa il riflesso dell’“animità che si esprime in forme simboliche”. “La morfologia della storia mondiale – illustra Spengler – diverrà necessariamente una simbolica universale”.
L’Occidente, la civiltà faustiana che secondo lo scrittore di Blankenburg ha espresso sino all’esaurimento l’antropologia dell’Europeo, la sua vigorosa e creativa tensione verso l’infinito, le distanze e gli spazi illimitati, è all’ultimo stadio. Soccombe nel kali yuga, direbbero gli autori del pensiero di Tradizione. Materialismo, liberalismo, comunismo, dominio delle masse, crollo delle nascite, ottimismo utopistico, il razionalismo che ottunde le forze vitali: sono solo alcuni dei segni di un mondo decadente, di una Kultur che diventa Zivilisation, la parodia “tecnicizzata” di una civiltà autentica e vitale. Il nuovo millennio ha reso sempre più evidenti le osservazioni spengleriane: sempre più plastiche le forme della crisi assaltano la nostra quotidianità. Faust ha ormai reificato, meccanizzato e volgarizzato la propria anima: ha rincorso la tecnica e il progresso, ma in superficie, perdendone il significato simbolico.
Lo sguardo di Spengler, di questo profetico cantore della fine, insegna la forza del realismo e la consapevolezza della decadenza. Insegna che il mondo occidentale vive un tramonto cui non può sfuggire. Insegna anche, è bene ricordarlo, che la natura destinale della storia non nullifica il senso dell’esistenza né le possibilità di testimonianza che sono qualità precipue dell’uomo di rango, ne forgiano lo stile. Il tramonto dell’Occidente, contra Fukuyama, non significa “fine della storia”, bensì nascita di nuove, plurime storie: quelle delle civiltà che soppianteranno le civilizzazioni decadute e degli uomini che sapranno creare una forma ad esse consona. In questa prospettiva il passaggio dalla modernità alla post-modernità cela in sé molte domande, forse anche qualche possibile risposta, sul tema della crisi e del suo superamento.
Comprendere il tramonto dell’Occidente, di questa civiltà occidentale, può allora significare, forse andando oltre il dettato di Spengler, immaginare nuove aurore. Significa ripetere la celebre – ma mai pienamente metabolizzata – affermazione di Hölderlin: “Dove c’è il pericolo cresce anche ciò che salva”.
La giornata di studi Oswald Spengler: aurore e tramonti del Secolo Breve (20 novembre 2018 – Università degli Studi di Milano) intende precisamente impegnarsi in una rilettura del Tramonto dell’Occidente a cento anni dalla pubblicazione. Per contestualizzare l’opera nella sua epoca, ma soprattutto per capire le ragioni della sua inattuale attualità: si mostrerà come molte delle dinamiche della cultura, società e (geo)politica mondiale divengano più comprensibili se lette alla luce del pensiero spengleriano. Le sue riflessioni sulla Russia, ad esempio, meritano oggi grande attenzione.
Sarà nostra cura mostrare l’importanza metodologica della filosofia della storia di Spengler, il quale ebbe a scrivere, in Anni della decisione: “Non offro una prospettiva ideale dell’avvenire, ed ancor meno un programma per la sua attuazione, come è di moda tra i tedeschi, ma un quadro chiaro dei fatti, come sono e come saranno. Io cerco di vedere più lontano di altri: vedo non solo grandi possibilità, ma anche grandi pericoli, la loro origine e forse la via per sfuggire ad essi”. Ducunt volentem fata, nolentem trahunt. Certamente. Ma in Spengler vi è anche realismo eroico, una trasfigurazione stoica della sorte dell’Occidente in uno “stile da sentinella”, sino a vivere quell’afflato propositivo così ben descritto da Stefano Zecchi nel suo saggio L’artista armato: “Il pensiero occidentale, stanco forse della sua prolungata violenza, un giorno potrà ritornare nella sua patria spirituale, che è l’anima di Faust: un’anima tedesca, nata nella terra del gotico e delle nebbie, in cui dimorano gli ultimi dèi che evocano ancora una civiltà lontana dal moralismo borghese della società industriale con i suoi falsi miti del progresso e del denaro”.
Luca Siniscalco
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