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BUONI ACQUISTI

In questi giorni si sta assistendo ad una sinfonia di sdegno pressoché unanime alla proposta del M5S di consentire l‘impiego del reddito di cittadinanza solo per spese morali. Evidentemente, l’opinione pubblica non era abituata da lunghissimo tempo a sentir accostare il termine ‘morale’ a qualcosa di così concreto come gli acquisti. Della morale si è usi far sfoggio di comodo quando si tratta di sostenere rivendicazioni astratte ed irrealizzabili: l’accoglienza (da parte di chi e nei confronti di chi? Entro quali limiti? In che modalità effettive?), l’uguaglianza universale (sotto quale profilo? Con quali riconoscimenti legali?), i diritti inviolabili (esigibili in quale forma e verso quale tribunale? In che tempi e a quali spese?). Tutt’al contrario, quando non si tratta di sbandierare verbose pretese irrealistiche ma misure dagli effetti concreti, ecco che ‘morale’ si tinge come per incanto di paternalismo e viene fermamente rigettata come indebita prevaricazione esterna verso l’insindacabile libertà individuale. Il solo spazio legittimo della morale diventa il privato nella sua inviolabilità: tot capita, tot fides.

È così che l’ingresso della distinzione fra consumi morali ed immorali nel dibattito pubblico ha sollevato reazioni inorridite, sbigottite, adornate da rievocazioni di spettri come il leviatanico Stato sovietico o l’economia pianificata. Non appena lo Stato, ormai da decenni ostaggio dei mercati, interviene con correttivi nei confronti della giungla delle transazioni economiche, viene subito stigmatizzato come il ritorno del peggiore dei totalitarismi. Ed effettivamente, dopo un trentennio di liberismo sfrenato ed incontestato, non stupisce che i primi timidi segni di vita del calmieramento statale facciano rabbrividire chi credeva ormai nel suo definitivo tramonto – anche in virtù dell’irreprensibile interventismo degli istituti internazionali, tutelari del libero mercato, che ripetutamente hanno calpestato norme locali eticamente connotate (si pensi all’invalidamento da parte del WTO dei limiti posti dall’Europa sull’importazione di carne bovina trattata con ormoni o dalla Tailandia sulle sigarette).

Alla pletora che invoca i diritti inviolabili della vendita e del consumo è bene ricordare che, in realtà, il mercato non è né un’enclave edenica priva di ripercussioni sul sistema sociale nella sua interezza, né l’inesorabile far west in cui ciascuno è legittimato a farsi giustizia da solo, al di fuori di qualsiasi cornice istituzionale. Il fatto che non ci siano (ancora) programmi pornografici nell’orario dei cartoni animati o che non ci siano (ancora) distributori di sigarette nei licei non è determinato dalla benevolenza dei rivenditori, ma da vincoli istituzionali (già presenti o previsti come reazioni immediate). L’attività di un soggetto economico, infatti, è sempre la massimizzazione del profitto, che non distingue per luoghi, destinatari o per implicazioni della propria condotta. Quest’ultima è per definizione non auto-noma: non ha nessuna ragione per porre a sé stessa dei vincoli; proprio per questo essi devono essere introdotti dalle istituzioni che circoscrivono gli spazi entro i quali, solo, i comportamenti economici sono consentiti. In questo senso, tra ‘Stato etico’ e Stato in quanto tale non c’è nessuna differenza.

Questo principio, a ben vedere, è lo stesso impiegato coerentemente per la proposta di legge delle chiusure domenicali. Dal punto di vista liberale, una simile idea è semplicemente eretica: se un soggetto vuole lavorare ventiquattr’ore al giorno sette giorni a settimana, perché impedirglielo? Con il decreto Cresci Italia del 2012, Monti fece precisamente questo ragionamento e introdusse una liberalizzazione totale ed indiscriminata degli orari di apertura (unico caso in Europa). Ma ciò che questo retroterra di pensiero ignora totalmente è che ogni comportamento economico è anche sempre insieme sociale, e che ogni azione individuale ha ripercussioni collettive. La liberalizzazione economica, in questo dell’orario, spalanca un nuovo piano concorrenziale e costringe tutti, volenti o nolenti, a parteciparvi. Ovviamente, chi ha un’ingente accumulazione di capitale non fa nessuna fatica ad assumere nuovi dipendenti per incrementare i profitti, mentre i piccoli esercenti si vedono costretti a lavorare anche nei giorni di festa (penalizzando severamente i rapporti interpersonali e familiari, i momenti di festa, socializzazione e ristoro) per non rimetterci eccessivamente in termini di clientela. Nessun aumento salariale, né un aumento di consumi: semplicemente una più illimitata competizione.

Indubbiamente, al momento della traduzione in legge, tanto la spesa morale quanto la chiusura domenicale contempleranno delle fattispecie contraddittorie – e su ciò media e comici di regime non tarderanno a ricamare. Ma almeno lo spirito che anima queste iniziative è sacrosanto: i ritmi della vita umana non sono compatibili con quelli del capitale. Il capitale non dorme mai, non distingue tra feriale e festivo, mentre le cadenze della vita biologica e sociale devono essere rispettati per garantire almeno l’autoriproduzione, al più un’esistenza degna e virtuosa. Revisionare presunti ‘progressi’ di consumo non significa affatto calpestare diritti, ma invertire un processo folle naturalmente incline alla degenerazione. Infatti, non basta volere qualcosa perché si abbia il diritto a farlo. Un diritto, al contrario, deve sempre commisurarsi alla tenuta del sistema sociale entro il quale esso nasce e viene garantito. Laddove il prurito vezzoso del consumatore entra in contrasto con i limiti posti dallo Stato, è il primo a dover indietreggiare e non il secondo a dover transigere; se ogni individuo vedesse subito consacrata a legge ogni propria libidine, la realtà sociale semplicemente imploderebbe. Per questo, il consumo purchessia non è, né può essere un diritto.

Alle spalle di provvedimenti come questi – che equilibrano con nitidezza il fronte liberale PD-FI contro quello compatto di Lega e M5S – si celano questioni storiche di epocale importanza, che non esagereremmo a definire cruciali per il destino delle comunità nell’Occidente. Purtroppo, il confronto a questo proposito tra liberal-liberisti e antiliberali con attenzioni comunitarie e sociali non è ancora edulcorato dai tanti residui politico-ideologici del passato. Ma ci auguriamo che la chiarezza non tardi a venire. Al momento, essa può essere avvertita solo tendendo l’orecchio con attenzione al levarsi delle prime ombre, ancora spettrali. Uno spettro si aggira per l’Europa: è quello della morale – concreta.

 

1 Comment on BUONI ACQUISTI

  1. Bellissime riflessioni

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