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IL TRAMONTO DELL’OCCIDENTE (SPENGLER CI ENTRA DI TAGLIO)

L'eco di un grido che fu

Andando diritto verso ovest, dentro il sole carminio del tramonto, si lascia il fiume alle spalle passando sul ponte dove gli alti parapetti impediscono il fuggevole sguardo alle acque acciaiose in transito schiumante dai monti che nelle giornate di vento trapuntano l’orizzonte a corona, appena una macchia cangiante le acque e, alla prima rotonda, si taglia verso sud lasciando il traffico costante della statale.

La strada pare murata tra edifici continui ad uso di fabbriche per lo più abbandonati da ormai un decennio. Le edere abbarbicano nelle trame dei mattoni e qualche monello ha fracassato le vetrate a lanci di pietra da cui fuoriescono, per l’ultimo volo del giorno, piccioni. All’ultima inferriata tarlata di ruggine e aggredita dalle gramigne la campagna si svela aperta. Risaie. Fenicotteri, nell’insolente bellezza della creazione, cacciano rane. Filiforme la loro ombra distesa nel crepuscolo. Nell’aria il sentore delle acque stagne. E laggiù un paese reciso dalla strada.

Nessuno per la via. Case serrate. Il consorzio agrario con l’ampio portone di quercia svirgolato sui cardini. Una esigua chiesa di stampo romanico orlata di muschio. Da un cassonetto stracolmo il telaio di un passeggino e un ombrello buttato lì. Serrande abbassate e avvisi sbiaditi di improbabili vendite. L’ultima casa è un caffè. Quattro tavoli lungo il marciapiedi, otto seggiole. Un uomo. Calzoni neri, camicia bianca rimboccata agli avambracci magri. Il volto vecchio intagliato a falco. Fuma con gesto inesorabile. Non segue la convertibile con lo sguardo. Guarda davanti a sé un luogo scolpito in un tempo che solo lui conosce. Ancora verso sud dentro la campagna aperta. La strada restringe. Una rana sfiora lo pneumatico e dal retrovisore l’uomo la vede guadagnare la risaia dirimpetto dove i fenicotteri sono schierati in esecuzione. Alla macchia di frassini l’auto devia verso ovest. La strada si fa tratturo sterrato. Si leva una polvere lattea. Ai lati ronge in secca di roveti arsi. Robinie in corazza di spine. L’auto trapassa l’ombra che si fa solida. Oltrepassa l’ampio cancello divelto dalle stagioni. E la dimora è lì. Il tetto di tegoli afflosciato, entropia, al piano nobile da cui spuntano tisiche erbe e sfarina la rovere di travi. Gli intonaci a calce gonfi di umidità a flemmone. L’uomo ferma l’auto. Per l’ovunque risulte di festini notturni. Per quanto sia luglio si respira l’alito di un lungo inverno.

Emanuele Torreggiani

Da Ticinonotizie 

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