La Fnsi, i precari e il giochino dei contratti mediatici
Il mondo del giornalismo è in crisi. Bella scoperta, sono anni che è in crisi ma nessuno, ordine e sindacato, se ne è mai preoccupato fino a quando la situazione non è diventata ingestibile. Ho scritto ingestibile, non insostenibile. Le due parole hanno un significato differente. Perché Ordine dei Giornalisti e FNSI se ne sono sempre lavati le mani dei precari veri e sono intervenuti solo quando la situazione, per loro, è andata fuori controllo e quindi ingestibile.
Cosa ha fatto il sindacato dal Congresso di Bergamo a oggi? Nulla. Non si è mosso nulla. Le stesse persone che erano prima nella Consulta Nazionale per il lavoro autonomo si ritrovano oggi ad anni di distanza, a dire che no signori, si deve restare nel sindacato, è sbagliato dare le dimissioni perché qualcosa si muove.
Eppur si muove. Cosa si muove forse sono solo contatti e possibilità di trovare qualche lavoro per sbarcare il lunario. Essere amici degli amici porta sempre qualcosa. Ed essere amici dei capi del sindacato porta lavoro. O protezione. Ma certe cose non si devono dire, devono stare sotto il tappeto. Tanti hanno paura a mettersi contro il sindacato. Non fa bene. E non sta bene.
L’Ordine dei Giornalisti si è mosso prima del sindacato. Una situazione paradossale che ha visto il presidente dell’Ordine in prima fila a sostenere la Carta di Firenze, una carta deontologica che avrebbe dovuto cambiare la situazione dei giornalisti precari e freelance, speravano alcuni, come una bacchetta magica ma che è solo una carta e niente più. Ne frattempo, aprono continuamente scuole di giornalismo, l’ultima è quella dell’Università di Cassino. Certo, non è una scuola è un corso universitario ma la sostanza non cambia, perché ogni corso che viene aperto significa altre decine o centinaia di giovani che entrano nel sistema dei media italiani ingrossando l’altissimo numero di disoccupati o inoccupati.
Pupazzi. Le nuove leve prese dal bacino dei precari e dei freelance dal sindacato per cercare di controllare il magma incontrollabile di sigle e siglette formatesi fuori dal sindacato stesso sono diventati, per la maggior parte, utili idioti pronti a battere le mani per il più piccolo peto che usciva dalla bocca dei vertici sindacali e pronti a criticare e demolire ogni proposta alternativa o più radicale nel nome dell’unità e della vittoria delle loro posizioni. I risultati ottenuti a distanza di mesi da Firenze sono patetici. E forse dovrebbero tutti farsi un caso di coscienza e non gioire se uno su mille si prende un contratto come se fosse una vittoria di tutti. Un sindacato giallo lo può fare, non un vero sindacato. Anche qui nulla.
Contrattini e casi mediatici. Dal 2010 al 2012 il sindacato si muove pubblicamente due volte per un precario o un freelance. Per Paola Caruso, collaboratrice del Corriere della Sera che inizia a fare un alquanto discutibile sciopero della fame per far conoscere la sua situazione di precaria, per Pierpaolo Faggiano, suicida per diversi motivi tra i quali anche quelli lavorsativi e per Giovanni Tizian, un giovane collega che si fa pagare quattro lire per inchieste sulla mafia al nord e che fino a pochi giorni fa era quasi completamente sconosciuto ai più e poi, d’improvviso, salito alla ribalta dopo che gli viene assegnata un scorta a causa delle sue inchieste. Perché? Perché il loro caso esce dalle quattro mura del mondo del giornalismo. Scandali che devono essere ‘bonificati’.
Arriva il tam tam mediatico fatto dai pupazzi sindacali, e Tizian diventa un personaggio. L’Espresso quindi, che fino al giorno prima non se ne era curato minimamente della sua situazione, gli fa un contrattino. La morale è imbarazzante: devi far lo sciopero della fame o raccontare ai quattro venti che sei uno sfigato da 4 euro al pezzo e in più rischi la vita per avere un contratto. La folla poi dopo questi fatti si placa, tutti si stringono la mano, è arrivata la giustizia. Ci pensa il Fatto quotidiano, che paga 25 euro (venticinque) i pezzi dall’estero e ha una lunga lista di arretrati a diversi colleghi, a voler fare denuncia dello sfruttamento dei giornalisti. Un cane che si morde la coda.
Io non anelo a un contratto, non prendo quattro euro a pezzo. Non posso lamentarmi del mio lavoro, ma se poi mi metto a fare due conti posso ricordarmi che non ho una assicurazione sulla vita né sugli infortuni, e nessuno si preoccupa delle condizioni di lavoro dei giornalisti che seguono aree di crisi, guerre, o semplicemente gli esteri in zone particolarmente delicate. Nessuno si preoccupa se hai traumi psicologici, nessuno si preoccupa se le condizioni di sicurezza nel tuo lavoro, che è importante, vengono rispettate. Fino a quando non muori o ti fai male. Ho conosciuto giornalisti che per pochi euro hanno seguito gli scontri a Piazza Tahrir in Egitto, rischiando la vita. Altri che lo hanno fatto durante la guerra di Libia. Diversi non hanno neanche il tesserino. Eppure sono bravi. Quando ti sparano addosso non ci pensi, ma quando ti fermi e l’adrenalina è sparita, ti chiedi perché lavori in queste condizioni. E ti rispondi che non te l’ha ordinato il dottore di farlo.
Ma se vale per noi, vale per tutti. O non deve valere per nessuno.
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